Tra il dire e il fare

Insalata russa e macedonia

Il dessert di Palermo è stato servito freddo, freddissimo, e l'Italia del calcio se ne starà a casa un'altra volta
Alessio Petralli
Alessio Petralli
27.03.2022 21:34

Cantano tutti l’inno a squarciagola. E conoscono perfettamente tutte le parole. Gli undici sul campo abbracciati stretti stretti, allenatori e dirigenza in panchina, pubblico all’unisono sugli spalti. E i toni si alzano, quando si dichiarano «pronti alla morte» e si apprestano a rompere le reni alla povera Macedonia del Nord.

Che gli italiani siano un popolo bellicoso sarebbe tutto da dimostrare, ma si sa che gli inni hanno una loro funzione identitaria che esula dal significato di ciò che si canta. D’altro canto gli spagnoli hanno un inno senza parole (né castigliane, né catalane per loro fortuna) e anche «l’alma mia t’adora» non porta molto lontano, se già all’inizio della seconda strofa («se di stelle è un giubilo la celeste sfera») boccheggiamo e facciamo tutti scena muta come tanti nostri nazionali a Wembley sabato sera.

Il dessert dell’altra sera a Palermo è stato servito freddo, freddissimo, e l’Italia del calcio se ne starà a casa un’altra volta. A scanso di equivoci diciamo subito che a noi dispiace molto, perché il prossimo mondiale d’autunno senza l’Italia avrà molto meno gusto, soprattutto dalle nostre parti.

Ma magari, chissà, ce la giocheremo con la Germania. Dopo aver fatto fuori Francia e Italia, fare un bel dispetto al «grosse Kanton» sarebbe il massimo per la Svizzera del calcio, che ormai esporta più calciatori che forme di Emmental. E a proposito di esportazione ci ha fatto pensare vedere l’altra sera nella sua Macedonia il nostro Gianni Alioski, che dopo essere transitato da Lugano e da Leeds si è accasato a Gedda, all’ombra dei petrodollari.

Per fortuna non sono però solo i soldi a muovere il calcio. Occorre prima di tutto costruire e mantenere nel tempo una vera identità di squadra, che dia il giusto spazio ai giovani locali. Ne prenda nota per tempo, cioè subito, il FC Lugano, sapendo che il nuovo stadio da solo non riporterà alla partita tutti quei giovani che ormai hanno scelto gli schermi più o meno casalinghi, lasciando desolatamente vuoti i tanti campetti affollati di una volta dove oggi crescono le margherite.

Ma torniamo all’Italia e alla sua capacità di risalire, e ridiscendere, la china. A far difetto è forse la capacità di gestire le conquiste. Bravi conquistatori, ma cattivi amministratori: tanto per dire inventano il telefono ma se lo fanno scippare da Graham Bell, sono i più bravi a fare il caffè ma intanto sono gli Starbucks a fare i soldi. Innegabile il gusto del bello e del buono, ma poi c’è la manutenzione e lì spesso casca l’asino. Ecco, bisognava cominciare subito a fare la manutenzione dell’Italia che ha vinto l’Europeo, mentre l’altra sera ci si è ritrovati a giocare con l’attacco del Sassuolo. Perché gli italiani non giocano quasi più, né nelle squadre italiane né nei campionati che contano all’estero. E per soprammercato il campionato italiano degli anni Ottanta, allora una grande azienda prima al mondo, ora è, se va bene, quarto, dopo la Premier, la Liga e la Bundesliga.

Peccato: sarà difficile far rinvenire la gallina dalle uova d’oro.

Le vignette di Giannelli sulla prima pagina del «Corriere della Sera» non sono sempre all’altezza (d’altronde, una vignetta al giorno…), ma quella di sabato era un piccolo capolavoro, soprattutto testuale. Titolo: «Tempi duri». Svolgimento: moglie in piedi in cucina che prepara la cena, marito già seduto al tavolo che distoglie lo sguardo dal giornale e la guarda preoccupato, cane anche lui abbacchiato sotto il televisore. Testo: «Il gas è finito! Cena fredda: insalata russa e macedonia!». In dieci parole si condensano tre drammi: energetico, bellico, sportivo!