L'opinione

La Chiesa nella bufera, da dove ricominciare

Monsignor de Raemy in conferenza stampa, senza cercare di attenuare il mea culpa al quale tutti gli uomini di Chiesa non possono sottrarsi, ha fatto cenno a un «cambiamento culturale definitivo e repentino» che dev’essere messo in cantiere nel cattolicesimo contemporaneo
Claudio Mésoniat
Claudio Mésoniat
19.09.2023 06:00

Monsignor de Raemy in conferenza stampa, senza cercare di attenuare il mea culpa al quale tutti gli uomini di Chiesa non possono sottrarsi, ha fatto cenno a un «cambiamento culturale definitivo e repentino» che dev’essere messo in cantiere nel cattolicesimo contemporaneo. Quanto al mea culpa, l’uomo che più di tutti ha combattuto nella Chiesa l’insabbiamento della pedofilia legata al clero, papa Benedetto XVI, ricordava, dopo i suoi incontri con le vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti, di aver visto nei loro occhi «le conseguenze di una grandissima colpa», imparando che «noi stessi veniamo trascinati in questa grandissima colpa quando la trascuriamo, come troppo spesso è accaduto e accade». Due temi importanti sui quali riflettere a proposito di quel «cambiamento culturale», riguardano la maturità affettiva dei candidati al sacerdozio e la solitudine dei preti.

Quanto al primo aspetto, andrebbe riconosciuto come nella predicazione della Chiesa, soprattutto nell’Ottocento e nel primo Novecento, la sessualità sia stata considerata un argomento tabù. Non è fuori luogo parlare di sessuofobia, con il corollario di un moralismo pedante tutto centrato sul sesto Comandamento biblico. Tuttavia il contraltare contemporaneo di un bombardamento sul tema (pornografia in testa) con la pretesa di attuare in tempi rapidi una maturità sessuale sganciata dalla maturità affettiva non può essere un’alternativa. Come non lo è l’attuale tendenza a sottolineare e favorire la fluidità sessuale, sminuendo il dato biologico. L’alternativa è quella di un cammino educativo guidato da adulti che quella maturità affettiva abbiano conquistato, siano essi laici o sacerdoti. Una maturità tanto importante per il futuro sacerdote o consacrato quanto lo è per chi prende la strada del matrimonio e della famiglia (uno sguardo all’attuale sorte dell’istituto matrimoniale nel nostro come in tutti i Paesi occidentali non offre un paesaggio confortante –quasi un divorzio ogni due matrimoni-, anche se solitamente trascurato, in particolare per le inevitabili conseguenze spesso disastrose sul percorso affettivo dei figli).

In realtà entrambe le strade, del matrimonio come del sacerdozio, dovrebbero generare un’autentica figura paterna. Sì, padre, e in modo ancor più delicato e pregnante, non può non essere il sacerdote. Pastore, certo, non lupo, ha sottolineato con forza monsignor de Raemy; ma per mettere del tutto a fuoco l’obiettivo dovremmo dire, in entrambe le situazioni (Chiesa e famiglia), padre, non abusatore.

È nell’orizzonte appena accennato che si possono affrontare anche le perplessità relative alla questione del celibato, che favorirebbe, si sostiene, la pedofilia. Una tesi da smentire, non tanto facendo leva sul fatto che percentualmente gli abusi sono ugualmente registrati in contesti religiosi che non conoscono questa radicale scelta del cattolicesimo (pastori protestanti, rabbini, ecc.), quanto piuttosto ricordando come Gesù non abbia scelto di non avere una propria famiglia bensì abbia voluto che la sua famiglia fossero gli apostoli e le persone che lo seguivano; così il sacerdote non sarà affatto il non-sposato che nega la propria affettività, bensì un uomo che la investe integralmente nel suo popolo, un uomo - per dir così - «sposato» alla sua gente.

Ecco perché nei seminari una personalità che si percepisse come non matura per assumersi la responsabilità (e la fatica) del matrimonio non dovrebbe neppure essere considerata adatta al sacerdozio.

La solitudine è un problema reale. Da decenni il prete non è più l’uomo al centro del villaggio (che sociologicamente non esiste più), così come raramente il popolo di Dio coincide con comunità racchiuse entro i confini della parrocchia. Anche per questo la possibile via da imboccare non è semplicemente quella di una convivenza tra sacerdoti ma quella di un’autentica vita comune. In questo senso sia gli ordini religiosi sia i nuovi movimenti nella Chiesa da tempo sostengono, là dov’è possibile, l’opzione di una vita comunionale tra sacerdoti, ma sottolineano che la vita comune ha in realtà un campo molto più vasto nella profonda amicizia cristiana che può legare il sacerdote ai laici e alle famiglie, anche al di là dei confini parrocchiali. Come accade, appunto, nei movimenti, che non sono affatto alternativi alle parrocchie, ma le vivificano. E soprattutto rigenerano la vocazione di ogni cristiano e di ogni comunità, parrocchiale o di altro genere, ossia la missione. Far conoscere Cristo, uomo vero, a chiunque e a tutti.