L'editoriale

La memoria come arma per battere la mafia

Si avvicina l'anniversario dell'attentato di Capaci: quel 23 maggio del 1992 segnò uno spartiacque di sangue nella vita italiana
Ferruccio de Bortoli
Ferruccio de Bortoli
21.05.2022 06:00

Quel 23 maggio del 1992 segnò uno spartiacque di sangue nella vita italiana. Nell’attentato di Capaci, vicino a Palermo, trovarono la morte, per mano anzi per bomba mafiosa, il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. È giusto ricordarle tutte le vittime, perché la cosa più crudele per un servitore dello Stato è l’oblio dei suoi concittadini. Come se il suo sacrificio fosse stato inutile. La prescrizione della memoria spesso colpisce prematuramente - non solo in Italia - chi sta dalla parte della legge. Al contrario, chi è interprete efferato del male gode non raramente di una notorietà persino planetaria, come i boss Totò Riina o Provenzano, ovvero i mandanti delle stragi. Il padrino, capolavoro di Francis Ford Coppola, tratto dal libro di Mario Puzo, ha appena festeggiato il mezzo secolo di successo. Nell’immaginario collettivo è la rappresentazione dell’efferatezza della mafia, ma anche, duole dirlo, di una certa sicilianità. Quell’altra sicilianità, così splendida, e generosa per senso di legalità e cultura, un’infinita galleria di personaggi coraggiosi e di eroi, tra cui, insieme a Falcone e Borsellino, il fratello del presidente della Repubblica, Piersanti Mattarella - stenta, nonostante tutto, a prevalere, soprattutto nell’opinione pubblica internazionale. Ecco perché la memoria è un dovere. Non un omaggio rituale a chi ha perso la propria vita nella lotta alla criminalità organizzata, ma la costruzione civica di una coscienza collettiva della legalità da cui nessuno può chiamarsi fuori. La memoria è dalla parte dei giusti. Alfredo Morvillo, alla presentazione del libro di Felice Cavallaro dedicato proprio alla sorella, moglie e collega di Falcone (Francesca, Solferino), ha fatto una constatazione amara, molto amara. «A trent’anni dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio la Sicilia è in mano ai condannati di mafia». Esagera? Forse un po’, ma non tanto. Morvillo si riferiva al ruolo svolto, nelle trattative per la scelta dei candidati alle prossime amministrative nell’Isola, da due condannati per mafia, l’ex presidente della Regione Totò Cuffaro e Marcello dell’Utri. Tutto vero. Se la memoria fosse autentica - ovvero un vaccino contro l’illegalità - dovrebbe spingere, soprattutto la politica, a tracciare confini netti con il passato, a non esporsi a zone grigie, a dubbi e sospetti. Proprio leggendo il libro dedicato a Francesca Morvillo e alla sua storia d’amore, tra magistrati, con Giovanni Falcone, si percepisce un angosciante sentimento di solitudine. Troppe ambiguità. Anche tra le istituzioni. E non solo nella società civile siciliana. Francesca e Giovanni, con la loro scorta, come (cinquantasette giorni dopo) Paolo Borsellino insieme ad Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina e Claudio Traina - cominciarono a morire nelle incomprensioni e nei distinguo. Avvertirono, anche nelle istituzioni, un certo senso di estraneità, a volte persino di fastidio. Dopo le stragi del ’92 lo Stato italiano ha però reagito. La giustizia, pur tra depistaggi e omertà, ha fatto il suo corso. «La mafia - diceva Falcone - non è affatto invincibile, è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e una fine». La fine non sarà così lontana se la memoria resterà viva come l’esempio, limpido, di Francesca e Giovanni. Un amore sincero e profondo, in case diventate rifugi o persino prigioni, in libertà negate dalle minacce, in una vita di sacrifici e di senso del dovere. C’è più romanzo nel bene che nel male. Basta cercarlo e sottrarlo all’oblio.