L'editoriale

La memoria fragile e l'urgenza di capire

È inutile girarci intorno facendo finta di niente: quello di quest’anno è il Giorno della Memoria più doloroso e complicato
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
27.01.2024 06:00

È inutile girarci intorno facendo finta di niente. Da quando una ventina di anni fa venne istituito dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nell’anniversario dell’apertura, il 27 gennaio 1945, da parte dei soldati dell’Armata Rossa dei cancelli del campo di concentramento e di sterminio di Auschwitz-Birkenau, quello di quest’anno è il Giorno della Memoria più doloroso e complicato. In un calendario civile, politico e istituzionale sempre meno sensibile, al logorio della saturazione e dell’assuefazione che un po’ inevitabilmente, alla lunga, anche il male assoluto con i fiumi di retorica che ne accompagnano la ritualità memorialistica finisce col suscitare, è lampante come quanto sta accadendo in Israele e a Gaza dopo il 7 ottobre stia rendendo oltremodo problematica, divisiva e controversa una celebrazione su cui invece tutti coloro che amano la giustizia, la libertà, la democrazia e i valori occidentali dovrebbero riflettere senza smarcamenti o distinguo di sorta. E invece figuriamoci se, come ha ben scritto Paolo Mieli, mezzo mondo (occidentale si badi bene non quello dei mullah afghani) non stia cercando «di far ricadere sugli ebrei del mondo intero la “colpa” per la successiva ritorsione israeliana su Gaza.

Riproponendo in maniera più o meno esplicita l’equiparazione - in voga da anni, a destra come a sinistra - tra lo Stato hitleriano e quello fondato nel 1948 da Ben Gurion». Un’aberrazione della memoria, dunque, più che una giornata per riflettere sulla Shoah, dove ancora una volta gli ebrei diventano quelli che qualche colpa la devono pur avere, che sono colpevoli anche quando sono vittime e che quando sono indubitabilmente vittime, be’, allora sono sempre un po’ meno vittime di chiunque altro nella Storia. Si ripete insomma il solito canovaccio intriso di ipocrisie, strumentalizzazioni, manipolazioni e reticenze che mescola e sovrappone consapevolmente responsabilità e conseguenze, ragioni e torti, verità e menzogne. E allora viene da chiedersi a che cosa possa ancora servire questo Giorno della Memoria quando ormai è evidente che alla vigilia della scomparsa anche dell’ultimo sopravvissuto allo sterminio nazifascista (secondo alcune stime nel mondo oggi vivono ancora circa 245 mila persone sfuggite bambine alla Shoah, la metà delle quali in Israele, con un’età media di 87 anni) presto il modo in cui si trasmette la memoria dell’Olocausto dovrà cambiare, con il rischio che la narrazione e la testimonianza perdano l’impatto e la capacità di coinvolgere gli ascoltatori che hanno avuto per decenni.

Certo scriverne, raccontarne e parlarne tanto è stato fondamentale e oggi possiamo dire che esistono poche pagine di Storia più e meglio studiate e analizzate in ogni dettaglio di quelle riguardanti la Shoah. Ma per quanto accurate e toccanti storiografia e memorialistica, in tutti i loro infiniti rivoli e sfumature, non bastano. Così come non basterà continuare a ripetere «Mai più!» o celebrare le vicende personali delle vittime rendendo omaggio ai Giusti tra le Nazioni che evitarono ulteriori morti innocenti. Forse per dare un senso al 27 gennaio si dovrà finalmente spostare l’attenzione dalle vittime ai carnefici e cercare di capire davvero i perché di un male così assoluto e di un odio scientificamente pianificato contro un popolo colpevole di esistere. Perché proprio gli ebrei? Prima, durante e dopo la Shoah: è in fondo questo il nodo che la cattiva coscienza europea deve avere il coraggio di affrontare se si vuole dare un significato e un valore a tanti discorsi sulla Memoria. Perché, nel cuore della raffinata e civilissima Europa, la vuota ignoranza della sopraffazione e il nulla assoluto dello sterminio genocidario sono potuti realmente accadere mentre il mondo sapeva, come dimostrò il grande scrittore Elie Wiesel nel 1999 in un amaro e celebre discorso tenuto nell’Aula Magna dell’università di Friburgo e diventato un miliare pamphlet sull’antisemitismo. Sapeva e sa, anche in questo nuovo insanguinato millennio. Certo oggi siamo tutti pronti a versare una lacrimuccia guardando La vita è bella o Schindler’s List, ma guai a spendere una parola per la tragedia e le ragioni dello Stato d’Israele. Perché in fondo l’ebreo ci piace solo quando è vittima, offeso, umiliato, sterminato ma così sensibile, acculturato, musicista, artista, ironico, spirituale e amico dei libri e delle parole. «Non illudetevi - disse Golda Meir, subito dopo il massacro degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco del 1972 -, al mondo libero gli ebrei piacciono solo quando vengono massacrati, appena osiamo difenderci o reagire tutto torna come prima». E anche questo è dovere della memoria.