La pace e il coraggio del granello di sabbia

Il conto alla rovescia per la Conferenza di pace che posizionerà la Svizzera e il Bürgenstock al centro del mondo a metà mese è entrato nella fase più calda, finanche tesa. E sotto la cupola di Palazzo federale si inizia a respirare quell’aria che genera un evento importante, voluto, atteso e, anche se nessuno lo dichiara pubblicamente, un po’ temuto. La portata è ragguardevole per la nostra piccola Svizzera e fa emergere, una volta ancora, quell’intraprendenza sconosciuta e schivata dai potenti e fatta propria da chi, per proporzioni geografiche è un granello di sabbia. Ma questo granello dimostra coraggio e noi che ne siamo parte integrante proviamo un senso d’orgoglio, anche se nel contempo ci interroghiamo e ci poniamo molti quesiti: non di quelli distruttivi che vanno tanto di moda da chi impersonifica la politica del «bastian contrario» a prescindere, dalle parti di Berna detto invece «Neinsager». Dichiararsi apertamente ostili nei confronti di una conferenza di pace è una posizione che fa emergere una sorta di perversione perché occorre gettare la maschera: o si vuole la pace o si vuole la guerra. Poi, per quieto vivere e per convenienza si può anche restare aggrappati alla terza via, quella del menefreghismo che, si badi bene, non è nella maniera più assoluta l’interpretazione della neutralità elvetica. Quest’ultima, va riconosciuto, è stata un po’ bistrattata dall’attacco della Russia ai danni dell’Ucraina, ma una parte neutrale deve battersi per la fine di un conflitto, non per mantenerlo in qualche modo in vita a dispetto dell’importante sacrificio di vite umane che ogni guerra lascia dietro di sé. Che poi la guerra sia un business non sfugge a nessuno e non riconoscerlo è semplice ipocrisia di comodo. Un discorso che però ci porterebbe molto lontano dal Bürgenstock.
La Conferenza elvetica non si è posta obiettivi altisonanti, non si è mai immaginata la firma di un trattato per fare cessare immediatamente il conflitto a due passi da casa nostra, ma soltanto di iniziare un processo. Partecipare è di per sé una dichiarazione di buona volontà, rifiutare di sedersi a quel tavolo rivela l’esatto contrario. La Svizzera prendendo l’iniziativa ha mostrato coraggio perché è innegabile che ad inizio anno, quando è stata presa l’iniziativa, un clamoroso flop era più che possibile. Uno dei problemi che emerge oggi è il ruolo avuto dall’Ucraina nel dare la spinta a questa conferenza, un fatto che ha portato la Russia a replicare piccata sin dall’inizio del processo. Va detto che per Vladimir Putin e i suoi ogni motivo, o pretesto, a partire dalle sanzioni adottate dalla Confederazione, sarebbe stato colto per prendersela con la Svizzera e affibbiarle l’etichetta di Stato non neutrale. I fatti delle ultime settimane hanno poi mostrato da parte russa un atteggiamento squalificante, culminato con la propaganda delle denigrazioni personali in diretta tv nei confronti della presidente della Confederazione Viola Amherd descritta come «egoista, assassina di bambini» e pure giudicata per il suo modo di vestire e gli orecchini indossati ed è stato pure detto che sul Bürgenstock andrà in scena «un ballo di satanisti». È evidente che in Russia viene fatto passare il messaggio che la Svizzera è filo-Ucraina. Per via diplomatica si è lavorato per tentare di smontare questa teoria, ma senza successo, forse anche perché a livello pubblico non è mai stato fatto nulla di particolarmente tangibile per dimostrare che questa etichetta era stata affibbiata da chi era interessato a che passasse quel messaggio.
Poi qualche scivolone lo ha fatto anche il nostro Paese che oggi si spende giustamente per la pace. Ma non possiamo esimerci dal guardare a quanto accaduto due anni fa, proprio in Ticino, con la Conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina, una memoria che non genera particolari entusiasmi. Tra l’altro, spontaneamente e seguendo la logica delle cose, appare difficile non chiedersi come mai si sia proceduto prima ad un evento finalizzato alla ricostruzione e solo in seconda battuta alla pace. Questo rimane un mistero, quasi fossimo in un mondo alla rovescia.
Detto che (a meno di inverosimili ribaltoni dell’ultimo minuto) la Russia non ci sarà e che pure la «reggente» Cina si è distanziata, viene a mancare una parte essenziale per discutere di pace. Inoltre, al di là dell’entusiasmo che è dovuto al protocollo, gli Stati Uniti senza il presidente Joe Biden e «solo» con la vicepresidente Kamala Harris al vertice non dimostrano certo un attestato di fiducia piena per l’iniziativa della Svizzera. Oggettivamente non si può chiudere gli occhi di fronte all’ostilità russa e all’entusiasmo frenato degli USA. Non attendiamoci nulla di stratosferico, ma, nel nostro piccolo, sosteniamo il coraggio elvetico di osare, di adoperarsi per compiere un passo avanti. Nella speranza di non restare soli in questa encomiabile iniziativa.