La posta di Carlo Silini

Non giudichiamo chi non è «resiliente»

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Carlo Silini
15.04.2022 06:00

Caro Carlo, negli ultimi due anni, segnati dalla pandemia, si è parlato molto spesso di resilienza, a volte a sproposito.

Spero di non essere fraintesa: il termine «resilienza» di per sé è bellissimo e indica la capacità di affrontare le sfide, come quelle che ci ha posto la COVID-19, mantenendo l’equilibrio mentale. Questa capacità di resistere non deve però essere presentata come l’unica chiave di lettura della pandemia. Mi rallegro per tutti coloro che sono stati in grado di utilizzare il lockdown per imparare una nuova lingua, praticare yoga e così via.

Tuttavia, queste persone dovrebbero essere considerate come fortunate eccezioni, e non come la regola. Ci sono anche le narrazioni della pandemia di chi in questo periodo non è diventato più forte, ma purtroppo più debole, e anche queste sono ugualmente degne di essere ascoltate. Ci sono gli scoraggiati e chi ha perso il lavoro. Non credo perciò che nessuno si debba sentire in colpa perché non è riuscito a «coltivare la resilienza» negli ultimi due, difficili, anni. E adesso, speriamo che si riesca finalmente a voltare pagina.

Costanza Naguib, Lugano

La risposta

Cara Costanza Naguib, temevo una campagna contro la parola «resilienza » che pare provocare l’orticaria in alcune persone particolarmente sensibili al vocabolario e agli scivoloni lessicali. Invece, e concordo, si tratta di un termine bellissimo (di sicuro uno dei migliori in pandemia, vista l’abbondanza di anglicismi evitabili, a partire da lockdown e homeworking). Forse infastidisce l’uso generalizzato e pervasivo che se n’è fatto e a furia di sentirlo c’è chi non ne può più. Mi pare ingeneroso: sarebbe come provare astio per l’«abuso» della parola pane, quando si parla di rimedi alla fame. È il termine giusto, perché odiarlo? Ma qui la faccenda è diversa. Qui si parla di persone, non di vocabolario. In particolare di quelle che in pandemia, per molte ragioni, non hanno sviluppato gli anticorpi della resilienza e quindi, se capisco bene, in un qualche modo sono state penalizzate tre volte.

Prima dalla crisi sanitaria e dalle misure di contenimento che hanno colpito tutti, poi dalla propria fragilità che non ha consentito loro di sollevarsi da terra, infine dal giudizio negativo degli altri. Capisco: mica tutti son fatti di gomma che cadono e si rialzano. C’è chi ha le ossa (o una struttura psichica) fragili, mica gli si può chiedere di saltellare in mezzo alle disgrazie. È assurda l’interpretazione della «resilienza» come criterio per separare i buoni (quelli che l’hanno sviluppata) dai cattivi (quelli che non l’hanno sviluppata). La resilienza è una risorsa che a seconda delle condizioni in cui uno si trova (età, grado di energia, stato di salute, qualità degli affetti, serenità psichica) può svilupparsi oppure no. Se è giusto ricordare che ognuno può tentare di risvegliarla proprio nei momenti peggiori, è insensato far sentire in colpa chi non riesce a farlo. Come se fosse solo una questione di forza di volontà.

Resilienza è anche capire questo, che i fragili vanno aiutati, rispettati e amati perché non hanno abbastanza risorse per farlo da soli.