Fogli al vento

L'inverno demografico

Crescere i figli costa fatica, denaro e responsabilità, fra immense gioie ma anche rischi di crucci e dolori e tutto ciò contraddice consumi e carriere e induce pessimismo o indifferenza sull’orizzonte del destino
Michele Fazioli
Michele Fazioli
02.04.2024 06:00

Culle vuote, ospizi pieni. Il popolo italiano (il dato è di pochi giorni fa) sta in fondo alla classifica continentale del numero dei bimbi nati. Ma il resto d’Europa non sta molto meglio. Vi faccio grazia delle cifre ma vi garantisco che sono vere e preoccupanti, se volete verificare andate a cliccare sui siti demografici ufficiali svizzeri ed esteri. La tendenza è inequivocabile: siamo popoli abbastanza benestanti e sempre più velocizzati, connessi, motorizzati, elettronici. Ma sempre meno generatori di vita. Diminuiscono i nati, aumenta il numero degli anziani: l’Europa è un «paese per vecchi». Vuol dire che un numero sempre minore di giovani dovrà lavorare di più per mantenere un numero sempre maggiore di anziani. Per fortuna ci sono gli immigrati che continuano a fare figli in modo robusto rispetto alla scarsa fecondità degli indigeni.

Sia per questi dati, sia per i grandi flussi migratori in atto, appare ormai inevitabile che l’uomo europeo classico andrà scomparendo per far posto a un meticciato nuovo. Non c’è poi da preoccuparsi troppo perché così sono sempre andate le cose nel flusso dei secoli e millenni: se noi siamo di stirpe lombarda, per dire, è perché intorno al sesto e ottavo secolo le nostre terre furono invase dai barbari longobardi, i quali a loro volta vennero invasi dai Franchi. Siamo un misto, ecco, e la razza pura lasciamola ai fanatici tipo Mein Kampf.

A interrogarmi non è la mescolanza etnica, che può essere persino salutare, quanto piuttosto proprio questa regressione della pulsione a generare vita che è costitutiva della natura umana (beninteso con tutto il rispetto per coloro i quali non riescono a fare figli o per ragioni importanti non possono o non desiderano farlo). Sta di fatto che il fenomeno della denatalità in atto è così evidente che gli esperti gli hanno anche dato un nome: «L’inverno demografico». I sociologi indicano che la colpa è anche dell’incertezza economica e dell’insicurezza indotte da carenze di strutture sociali innovative: si chiedono giustamente più asili nido, congedi parentali, sussidi familiari, redditi minimi. Tutto giusto. E spesso con la scusa di crisi economiche sempre in agguato e con la fissazione dei risparmi ad ogni costo, un po’ ovunque (anche da noi) si ritardano i progetti sociali strutturali a favore di chi vorrebbe costruire famiglia e ha timore economico (e dunque psicologico) per il futuro. Mettiamoci pure il controllo responsabile delle nascite, mettiamoci anche il sacrosanto diritto delle donne ad accedere a studi, professioni e carriere al pari dei maschi (e ci mancherebbe che non fosse così).

Eppure, da sole queste ragioni non basterebbero a scoraggiare in modo così vistoso la voglia di creare vita. Vedo in giro anche una specie di egoistica disaffezione per la scommessa responsabile di generare figli, un libertinismo autoreferenziale, un abbassamento dell’asticella dell’ideale, del progetto amoroso e fecondo, della passione per la bellezza grande della vita. Ci ha sicuramente messo del suo anche il fenomeno dominante del consumismo, con l’esasperazione di desideri che spesso sono indotti e droganti e sottoposti all’imperio del profitto ad ogni costo. In questa morsa psicosociale si iscrive spesso anche il desiderio di avere pochi figli o addirittura di non averne. Crescere i figli costa fatica, denaro e responsabilità, fra immense gioie ma anche rischi di crucci e dolori e tutto ciò contraddice consumi e carriere e induce pessimismo o indifferenza sull’orizzonte del destino. Le poche famiglie che si ostinano a fare molti figli sono guardate come una cosa strana, persino un po’ sconveniente, e invece dovremmo ammirarle.

Forse, davvero, volere che i figli nascano e lasciare che i figli nascano vuol dire dopotutto amare la vita, fidarsene, abbracciare la scommessa di un destino buono per noi e per chi abbiamo messo al mondo. Sarebbe interessante sapere se e in che misura la vita sia ancora giudicata fiduciosamente come dono e meraviglia e non come un optional da centellinare secondo il desiderio immediato e un po’ egoistico. Per cui succede poi paradossalmente che proprio la nostra società benestante che fa pochi figli, in una sua minoranza fa qualsiasi cosa pur di averne, fino agli uteri in affitto (non c’è qui spazio per parlare dell’uso mercificato e umiliante dei ventri femminili venduti, con coppie etero e gay e ricche che comperano le pance di donne povere). È vero che oggigiorno si manifesta anche la cultura, giusta, delle cosiddette paternità e maternità responsabili. Ma frenare per egoismo o tiepidità esistenziale il flusso naturale della vita che preme e irrompe significa avere una preoccupante «irresponsabilità del futuro».