Morire meglio

Se mi chiedessero di riassumere in una formula la differenza tra Oriente e Occidente direi: l’Occidente non ci salva, mentre l’Oriente ci insegna che non c’è nulla da cui salvarsi. Naturalmente è una semplificazione, ma rivela se non altro un dato: morire in Oriente o morire «all’orientale» è forse meno drammatico che morire «all’occidentale». Non fosse perché la morte «all’orientale» è a suo modo meno drastica.
Lo rivelava Tiziano Terzani scrivendo di Benares, in India: «Mi colpì che nessuno, mai, piangeva. La morte era un fatto contro cui nessuno sembrava ribellarsi». In effetti i nostri tre monoteismi – ebraismo, cristianesimo, islam – hanno della morte un’immagine estrema, molto più estrema rispetto a quelle di buddhismo e induismo. Per essi nella morte tutto in un certo senso finisce, la cesura tra vita e morte è assai netta. In Oriente si potrebbe invece dire che si muore «di meno», poiché la grande Anima del Cosmo (Brahman) non cessa di accogliere nella morte la piccola Anima dell’Uomo (Athman) esattamente come avveniva in vita: vita e morte, in quelle fedi, appartengono a un unico tessuto.
Tiziano Terzani lo sapeva bene, tanto che durante la sua battaglia contro il cancro non fece che testimoniarlo: se contro la morte nessuna scienza occidentale può nulla, lo spirito orientale può almeno aiutarci ad affrontarla con minore disperazione.
Ma cosa significa «imparare a morire»? A questa domanda l’Oriente risponde serenamente: «Significa imparare a vivere. E imparare a vivere significa riconoscere che noi siamo parte di un Tutto che non fa altro che riprodursi: esattamente come le stagioni finiscono e ricominciano e la natura muore soltanto per poi rinascere».
In questo fatalismo il rapporto con la morte cessa dunque di essere tragico e si trasforma in qualcosa di naturale. Quindi il rapporto con la vita non è più principalmente impostato sull’idea di «successo», come è di norma in Occidente, ma su quella di «abbandono»: non ci cerca di primeggiare ma di raggiungere quello stato di serenità che è nel rassegnarsi al destino delle cose, degli uomini e della natura.
Significa che in Occidente non sappiamo allora morire? Certamente no. Ma in qualche misura significa che potremmo – imparando dall’Oriente – morire meglio. Morire senza troppo piangere, morire sapendo che la morte è solo un «passaggio», morire sapendo che nulla di noi andrà perduto, che tutto si ricomporrà in un unico disegno che è quello del cosmo e della natura. Morire più o meno come potremmo vivere, insomma: non sfidando la natura, non cercando di imporle la nostra volontà, ma accogliendone le leggi inviolabili. Di cui morte e rinascita sono solo le principali.