Parole al vento

«Fogli al vento» si intitola questa rubrica che evoca sì il vento spesso insistente della mia città ma anche la precarietà delle parole giornalistiche: un giornale, si sa, il giorno dopo la sua pubblicazione serve a incartare l’insalata, ogni edizione nuova divora quella vecchia, il giornalismo è servizio immediato e non letteratura. Poi naturalmente ci sono le parole dentro i libri le quali, prescindendo dai molti libri inutili, quando incantano, mordono e pesano, rimangono. Ci restano dunque, per fortuna, miliardi di parole scritte e quindi vive (e ci sono anche, dall’epoca moderna in poi, le parole registrate, dai 33 giri fino ai cellulari e ai computer). Ma oggi voglio spendere un pensiero (paradossalmente scrivendolo) proprio per quelle parole non scritte, le parole al vento che nessuna scrittura o stampa o registrazione sonora ha potuto fermare e consegnare alla memoria. Viene un senso di vertigine nel pensare ai miliardi e miliardi di parole che furono soltanto dette e di cui non rimane nessuna traccia. Sono le parole perdute. Parole di allegria e dolore, inutilità e profondità, parole di desiderio, rabbia, nostalgia, speranza, amore e odio, verità e menzogna. Moltissime insignificanti e banali, polvere di chiacchiere, ma alcune anche vitali e preziose. Esistono dunque miliardi di parole scritte ma sono esistite nei secoli molti più miliardi di parole solo dette: volubili, funzionali o vacue e basta, ma talora piene di profondità, di senso e di grandezza. Quanti saperi perduti, quante acutezze svaporate, quante curiosità rimaste sospese! Chi saprà mai cosa si dissero esattamente guardandosi negli occhi il Papa Leone III e Carlo Magno la notte di Natale dell’anno 800, quando il pontefice incoronò imperatore il re franco?
Si sa che Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni si incontrarono una volta, una sola volta, a Firenze, nel 1827. Se ne ha notizia solo in un brevissimo accenno del poeta in una lettera al padre. Cosa si saranno detti, quei due? Resterà un mistero quell’incontro fra lo scrittore lombardo già maturo, turbato da proprie manie come l’agorafobia, cattolico, e il geniale poeta e filosofo di Recanati, macilento, agnostico e febbrile.
Di un altro incontro non avremo mai notizia scritta. Avvenne nel 1787, a Praga. Si stava per dare la “prima” del Don Giovanni di Mozart, il musicista aveva 31 anni (sarebbe morto due anni dopo), era agitatissimo per quel debutto e ancora stava rifinendo l’opera con il suo librettista Lorenzo Da Ponte. Da Ponte (che voleva essere un poeta celebre di suo ma sapeva di essere noto solo come librettista di Mozart) aveva conosciuto bene in passato Giacomo Casanova, il quale viveva ora non lontano da Praga, in Boemia, ormai vecchio, caduto in disgrazia come diplomatico, tramontato come seduttore, rimasto senza soldi (il conte di Waldstein lo aveva “salvato” assumendolo come bibliotecario nel suo remoto castello boemo). Dicono le cronache che Casanova avesse perso ogni traccia di fascino, rimasto con pochissimi capelli e senza denti, malinconicamente intento a lavorare con febbrile tristezza alle sue memorie per fermare il ricordo di quei fasti perduti per sempre (e in effetti li possiamo leggere ancora oggi). Da Ponte scrisse a Casanova e gli propose di incontrarsi a Praga: in una taverna il poeta presentò al vecchio Casanova il giovane e nervoso Mozart. I tre si rividero nei giorni successivi, pare che discutessero degli ultimi ritocchi al Don Giovanni lirico e forse il decaduto seduttore dette qualche amaro consiglio. Ma, bevendo birra o sorbendo la cioccolata nelle sere autunnali di Praga, cosa si siano detti quei tre, il vecchio amatore sdentato e incupito, il poeta frustrato e quel giovane agitato che resterà uno dei massimi geni della musica di ogni tempo, non lo sapremo mai. Peccato.