Parole dette e volate via

Le parole dette volano, quelle scritte restano, si sa. Ci rimangono, per fortuna, miliardi di parole scritte e dunque vive. C’è dentro il sapere dell’umanità. Ma viene un senso di vertigine nel pensare ai miliardi e miliardi di parole che furono soltanto dette, non trascritte, e di cui non rimane nessuna traccia. Sono le parole perdute. Parole di allegria e dolore, inutilità e profondità, parole di desiderio, rabbia, nostalgia, speranza, amore e odio, verità e menzogna. Moltissime insignificanti e banali, polvere di chiacchiere, alcune vitali e preziose.
È pur vero che da oltre un secolo l’uomo ha inventato la registrazione sonora e oggi ci sono parole dette e volate ma acciuffate da una macchina. E le possiamo risentire. Volete un esempio semplice semplice? Nel film Casablanca, 82 anni fa, una donna bella e triste, Ilse (Ingrid Bergmann), ancora innamorata del suo Rick perduto (Humphrey Bogart) chiede al pianista di colore ritrovato a Casablanca di risuonare «quella» canzone che a Parigi accompagnava gli innamorati: «Suona la nostra canzone, Sam, come a quel tempo. Suonala, Sam». E Sam suona, e gli occhi di Ilse si inumidiscono e all’improvviso dalla porta del bar di Casablanca entra in smoking bianco proprio Rick… Ecco, quella frase celebre noi la possiamo risentire e anche scrivere, come faccio io ora, e commuoverci con essa.
Però la meraviglia del sonoro tecnico è cosa recentissima. Per millenni l’umanità ha visto volare via le parole dette e non scritte. La parola spiccia veniva scambiata come moneta pratica di comprensione, la parola più profonda (fiabe, miti, religioni, poesia…) entrava nel cuore e nella memoria, ripetuta innumerevoli volte perché per via orale si trasmettesse da persona a persona, alle generazioni, insieme alle mille storie raccontate davanti a mille fuochi in mille e mille anni. Poi l’uomo ebbe il desiderio di conservare la parola e inventò dei segni che la simboleggiassero, la trattenessero. E li incise sulle pietre, sulle tavolette di cera, sulle pelli conciate, le vergò sulla carta, le stampò, le digitò sui telegrafi, sui computer. Da qui l’Iliade e la Bibbia, Guerra e pace, le lettere d’amore, la lista della spesa e i giornali, la Divina Commedia e le mail. Esistono come ho detto miliardi di parole scritte ma esistettero molti miliardi di parole solo dette. Quanti saperi perduti, quante curiosità rimaste sospese! Chi saprà mai cosa si dissero esattamente guardandosi negli occhi il Papa Leone III e Carlo Magno la notte di Natale dell’anno 800, quando uno incoronò l’altro Imperatore? Si sa che Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni si incontrarono una volta, una sola volta, a Firenze, nel 1827. Se ne ha notizia solo in una brevissima frase del poeta in una lettera al padre: «Io qui ho avuto il bene di conoscere personalmente il signor Manzoni, e di trattenermi seco a lungo: uomo pieno di amabilità, degno della sua fama». Cosa si saranno detti, quei due? Resterà un mistero quell’incontro fra lo scrittore lombardo già maturo, turbato da proprie manie come l’agorafobia, cattolico inquieto, e il giovane poeta di Recanati, macilento, agnostico e febbrile. Di un altro incontro non avremo mai notizia scritta. Avvenne nel 1787, a Praga. Si stava per dare la «prima» del Don Giovanni di Mozart, il musicista aveva 31 anni (sarebbe morto due anni dopo), era agitatissimo per quel debutto e ancora stava rifinendo l’opera con il suo librettista Lorenzo Da Ponte. Da Ponte (che voleva essere un poeta celebre di suo ma sapeva di essere noto solo come librettista di Mozart) aveva conosciuto bene in passato Giacomo Casanova, il quale viveva ora non lontano da Praga, in Boemia, ormai vecchio, caduto in disgrazia come diplomatico, tramontato come seduttore, rimasto senza soldi. Il conte di Waldstein lo aveva «salvato» assumendolo come bibliotecario nel suo remoto castello di Dux. Dicono le cronache che Casanova avesse perso ogni traccia di fascino, rimasto con pochissimi capelli e senza denti, malinconicamente intento a lavorare con febbrile tristezza alle sue memorie per fermare il ricordo di quei fasti perduti per sempre (e in effetti li possiamo leggere ancora oggi). Da Ponte scrisse a Casanova e gli propose di incontrarsi a Praga: in una taverna il poeta presentò al vecchio diplomatico «in esilio» il giovane e nervoso Mozart. I tre presero a discutere, si rividero nei giorni successivi fino alla «prima» del Don Giovanni. Forse, si è poi congetturato, Casanova diede qualche consiglio a Da Ponte e Mozart sulla rifinitura dell’opera: ovvero i consigli per l’orgoglioso Don Giovanni del mito da parte di un malinconico «dongiovanni» decaduto. Ma, bevendo birra o sorbendo la cioccolata nelle sere autunnali di Praga, cosa si siano detti quei tre, il vecchio amatore sdentato e incupito, il poeta frustrato e quel giovane agitato che resterà uno dei grandi geni della musica di ogni tempo, non lo sapremo mai. Peccato.