Per l'orrore di Gaza le parole non bastano

Riguardo all’immane tragedia umanitaria in corso nella Striscia di Gaza, l’Europa è come immobilizzata dentro una pericolosa miscela di verbose dichiarazioni congiunte e forse addirittura di indifferenza. La nostra piccola Svizzera, a lungo sede della più alta diplomazia internazionale, tenta di fare eccezione, ma con scarsi risultati. Spieghiamoci, doverosamente, meglio. Ogni giorno, in particolare dalla fine del maggio scorso con l’arrivo della controversa Gaza Humanitarian Foundation gestita da Stati Uniti e Israele, intorno ai siti di distribuzione del cibo si registrano decine e decine di morti. L’IDF afferma che a sparare sui palestinesi sia la stessa Hamas, Hamas replica che sono i contractors della GHF ad avere il grilletto facile. Appurare come stanno le cose è difficile anche per i pochi giornalisti palestinesi rimasti vivi (Israele non permette l’ingresso nella Striscia a giornalisti indipendenti). Possiamo però, da qui, fare una considerazione semplice e ci auguriamo condivisibile da tutti: se un sistema di distribuzione di aiuti umanitari, anziché aiutare i disgraziati a sopravvivere, provoca decine di morti ogni giorno, andrebbe come minimo messo sotto revisione e profondamente riorganizzato. E non domani, ma oggi. Evidentemente ci sono interessi strategico-militari a mantenerlo così. Alcuni analisti ritengono che l’attuale impostazione, con i siti di aiuti concentrati nel sud della Striscia, serva a spingere e trattenere lì l’intera popolazione palestinese, in vista della creazione della cosiddetta «città umanitaria».
Intanto, l’ONU si dice «inorridita» dalle stragi quotidiane e dagli attacchi contro le proprie strutture e l’UE continua a ripetere che i palestinesi hanno «sofferto troppo» e a chiedere a gran voce un flusso libero e sicuro degli aiuti. Persino alcuni politici occidentali tradizionalmente pacati sul tema hanno iniziato a definire «inaccettabili» le stragi di civili palestinesi. Venticinque ministri degli Esteri europei, tra i quali Ignazio Cassis, hanno diramato una lettera chiedendo l’immediata fine della guerra e dicendosi «pronti a intraprendere ulteriori azioni per sostenere un cessate il fuoco». Quali siano queste azioni, non è dato sapere. Per ora, ci sembra che l’Europa stia spendendo sulla catastrofe umanitaria a Gaza molte parole, ma queste restano solo sassi lanciati nell’acqua: provocano onde che non colpiscono niente.
L’Europa procede, insomma, con i piedi di piombo. Si teme che avviare delle sanzioni contro Israele possa lanciare un messaggio sbagliato ai terroristi di Hamas. E in parte sarebbe proprio così. Detto altrimenti, la situazione è talmente orribile e complicata che si stenta persino ad assumere posizioni nette e si fanno mille distinguo. Intanto il sangue scorre senza un perché, tra accuse reciproche e inverificabili. È la legge del più forte, che ha soppiantato in brevissimo tempo il pluridecennale diritto internazionale che ci ha accompagnato, nel bene come nel male, dalla fine della Seconda guerra mondiale fino ad oggi.
Una cosa, però, l’Europa potrebbe tentare di fare con più decisione. Se più massicce sanzioni contro Israele potrebbero essere controproducenti per un accordo di pace e finirebbero, ne siamo abbastanza sicuri, col gettare benzina sul fuoco dell’antisemitismo, di contro un gesto concreto sugli aiuti alla Striscia non potrebbe in alcun modo essere interpretato come una ingerenza nel conflitto né tantomeno come una presa di posizione. L’Europa si armi di aiuti umanitari e trovi il modo di consegnarli in autonomia ai civili palestinesi, respingendo le pressioni dei due belligeranti. È la vecchia e sempre valida cultura della pace: basterebbe un solo gesto a ricordarla, visto che le parole non bastano più.