Perché, in fondo, Donald Trump tifava per Hunter Biden

Sono decine e decine i post con i quali, giornalmente, l'ex – e forse futuro – presidente statunitense Donald J. Trump infiamma la propria bacheca sul social, Truth. A volte si tratta, semplicemente, di video che mostrano il tycoon – immancabile il cappellino MAGA calato fin sopra agli occhi – arringare la folla presente ai comizi. Altre, di insulti non tanto velati all'avversario, Joe Biden, e alla sua presunta inettitudine nel gestire questa o quell'altra crisi. Ma sempre più, ormai, fra post e interviste, il tema dominante degli sfoghi trumpiani è uno: come il sistema giudiziario americano si sia – a detta del quasi 78.enne – piegato alle pressioni dei suoi avversari (leggasi: dei dem e dell'amministrazione Biden in particolare) per promuovere una persecuzione politica nei suoi confronti.
Un'accusa tutt'altro che nuova: da mesi a questa parte – sin dalle incriminazioni, potremmo dire – Trump si è volentieri dato a comode illazioni sulla natura dei processi venturi. Era facile prevedere che l'arrivo del primo verdetto, ancor più se con esito a lui sfavorevole, avrebbe comportato, per la sua retorica contro la Giustizia americana, un ennesimo giro di vite. Ma l'analisi che i media statunitensi hanno proposto all'uscita di Trump, a volto scuro, dal tribunale di Manhattan si è forse eccessivamente concentrata sulle conseguenze elettorali della vicenda.
Centinaia, sull'arco di una decina di giorni, i grafici e i sondaggi prodotti dall'informazione americana nel tentativo di prevedere che impatto potesse avere, sull'elettorato repubblicano, l'idea di ritrovarsi a votare, improvvisamente, per un pregiudicato: «Trump perderà voti? O, paradossalmente, ne guadagnerà?». Meno frequenti, invece, i quesiti riguardanti gli effetti sociali – a breve e lungo termine – non solo della condanna in sé, ma anche e soprattutto di tutto ciò che è seguito; in particolare, la marcia sempre più guerrafondaia ingranata dalla macchina comunicativa MAGA. Una macchina che già in passato, è bene ricordarlo, potrebbe aver giocato un ruolo determinante nel portare la rabbia sobbollente della folla a riversarsi nelle sale di Capitol Hill.
In vista di un'estate elettorale che si preannuncia pericolosamente infuocata, gli Stati Uniti avevano un disperato bisogno di un pompiere. E a gettare un po' di acqua sull'incendio ci ha pensato, suo malgrado, il figlio di Joe Biden, Hunter. Riconosciuto colpevole del porto illegale di un'arma da fuoco in un processo tenutosi quasi parallelamente a quello di Trump, il First Son rischia una condanna fino a 25 anni di prigione.
Sebbene la campagna presidenziale di Donald abbia immediatamente cercato di trasformare quest'altra condanna in nuova legna da ardere («Il verdetto è solo una distrazione dai veri reati della famiglia Biden»), l'atteggiamento tenuto dal tycoon stesso spiega bene l'umore alla Trump Tower. Non è per solidarietà nella disgrazia che Trump ha accuratamente evitato, in queste ore seguenti il verdetto, di fare su Truth qualsivoglia riferimento al figlio dell'avversario, un bersaglio – sulla carta – davvero facile. E non è per caso che, già nei mesi precedenti, il rampollo dell'avversario sia totalmente uscito dalla scaletta di Trump. Un anno fa, gli avvocati di Hunter Biden si trovavano costretti a inviare una lettera di cease-and-desist nella quale domandavano all'ex presidente di porre fine ai martellanti post riguardanti il figlio di Joe Biden, nel timore che incitassero alla violenza contro la famiglia. Oggi, e da qualche mese a questa parte, il silenzio.
Le motivazioni dell'inversione a U sono facilmente intuibili: la possibile (poi confermata) condanna di Hunter Biden rappresentava una crepa nella narrazione minuziosamente cesellata da Trump e dal suo team. Come spacciarsi per martire, la vittima di un complotto politico-giudiziario, se anche il figlio prediletto dell'avversario si trova ad affrontare simili guai in tribunale? L'unica cosa da fare, per il mago di Mar-a-Lago, era agitare la bacchetta magica e – puff – far scomparire, almeno dai propri registri, Hunter Biden.
Difficile, al momento, fare una stima di quanti, fra i cittadini americani ci siano cascati. Ma una cosa è certa: come conferma l'ennesimo post di lamentele pubblicato ore fa su Truth, Trump ha intenzione di portare avanti, come nulla fosse, la linea del vittimismo penale. E per quanto la condanna di Hunter Biden smentisca, in gran parte, le accuse di parzialità politica della Giustizia americana, l'ex presidente andrà avanti a fare del caso Stormy Daniels (così come di quelli che verranno) qualcosa con cui alimentare la rabbia delle folle e, così, la sua corsa verso la Casa Bianca.
In un momento di sofferenza personale («Sono il presidente, ma sono anche un papà»), Joe Biden può però rincuorarsi: un sistema giudiziario in grado di processare (e condannare) nel giro di due settimane re e alfiere di due schieramenti opposti è un sistema che, ancora, funziona. Per gli Stati Uniti c'è speranza.