Quei danni «collaterali»

Negli ultimi mesi, l’amministrazione Trump ha imposto dazi fino al 35% su una vasta gamma di prodotti provenienti da Paesi come Indonesia, Giordania, Vietnam e Messico. L’obiettivo dichiarato è rilanciare l’industria americana, ma le conseguenze di queste misure si fanno sentire ben oltre i confini economici. Le nuove tariffe stanno infatti mettendo in crisi le catene globali di approvvigionamento, incidendo sulla sostenibilità ambientale, sociale e sulla resilienza delle imprese. La supply chain - il processo che va dalla produzione delle materie prime alla consegna del prodotto finito - è oggi una rete internazionale complessa. Ogni fase della produzione può avvenire in un Paese diverso, il che rende il sistema efficiente ma anche estremamente vulnerabile a shock esterni, come le decisioni protezionistiche. Negli ultimi anni, molte aziende hanno cercato di rendere le proprie catene più sostenibili, investendo in tracciabilità, condizioni di lavoro dignitose e riduzione dell’impatto ambientale. Tuttavia, i dazi statunitensi stanno compromettendo questi progressi.
La sostenibilità, in questo contesto, non è solo ambientale. Include anche la tutela dei diritti umani, il benessere delle comunità locali e la responsabilità d’impresa. Una filiera sostenibile si basa su relazioni trasparenti e fiduciarie tra partner internazionali. I dazi però spingono le aziende a tagliare i costi, a cambiare fornitori e a cercare alternative meno costose, spesso in Paesi con normative più deboli. Così facendo, si perdono gli investimenti fatti nel tempo per creare supply chain etiche e sostenibili. Il settore più colpito è quello tessile. In Indonesia, si rischiano fino a 50 mila licenziamenti, mentre in Giordania, dove l’80% delle esportazioni verso gli USA proviene dal tessile, tra 10 mila e 15 mila posti di lavoro femminili sono a rischio. Questi numeri non rappresentano solo una crisi occupazionale, ma un arretramento nei diritti economici e sociali, soprattutto delle donne. Le imprese, costrette a cambiare fornitori, spesso sacrificano la qualità delle condizioni lavorative e il rispetto ambientale pur di sopravvivere economicamente. I dazi stanno inoltre indebolendo le fondamenta della sostenibilità aziendale: audit ambientali, programmi di welfare, iniziative sociali e corsi di formazione sono tra le prime voci di spesa a essere tagliate. Questa reazione a catena mette in luce quanto sia fragile il legame tra economia globale e valori sostenibili. Le imprese si trovano strette tra due forze opposte: da una parte la spinta verso obiettivi ESG (ambientali, sociali e di governance), dall’altra l’instabilità politica e commerciale che rende difficile pianificare a lungo termine. Il vero problema, quindi, non è solo l’impatto diretto dei dazi, ma l’incertezza che generano. La sostenibilità richiede continuità e collaborazione, elementi che oggi mancano. Senza una visione condivisa e stabile delle regole del gioco globale, ogni passo avanti verso una produzione responsabile può essere facilmente cancellato.
Per rispondere a questa crisi, è necessario ridefinire il ruolo della sostenibilità nella strategia d’impresa. Non può più essere considerata un costo extra, ma un investimento strutturale per la resilienza futura. Le filiere che sopravvivranno alle crisi saranno quelle fondate su rapporti etici, trasparenti e duraturi. I dazi imposti da Trump hanno reso evidente una verità scomoda: le nostre catene produttive non sono solo economicamente esposte, ma anche socialmente e ambientalmente fragili.
In un mondo interconnesso, ogni scelta commerciale può trasformarsi in una crisi sociale. Rafforzare le supply chain a partire dai valori è quindi una priorità, se si vuole evitare che le turbolenze economiche degenerino in emergenze umanitarie e ambientali.