Se cultura umanistica significa democrazia

Assediati dalle facili scorciatoie dei populismi e dalle semplificazioni di tecnocrazie digitali sempre più pervasive, egemoniche e inclini a rivelarsi per quello che sono (ovvero fine ultimo, nell’interesse di pochi, e non utile strumento per migliorare il mondo di molti) ci stiamo per fortuna da qualche tempo abituando a riconsiderare, almeno a livello di dibattito di principio, il concetto di utilità dell’inutile. Esistono dunque, e questo lo sappiamo o lo abbiamo imparato, tantissimi saperi ritenuti «inutili» che invece, a maggior ragione nel nostro tempo fluido e dalle identità multiple, si rivelano di una straordinaria utilità. Risale d’altronde ormai a una decina di anni fa il «manifesto» con cui Nuccio Ordine dimostrò lucidamente come l’ossessione del possesso, l’ubriacatura tecnologica e il culto dell’utilità finiscano per inaridire lo spirito, mettendo in pericolo non solo l’istruzione delle future generazioni oppure l’arte e la creatività ma anche i valori fondamentali su cui abbiamo costruito e dovremmo fondare le nostre società, come la verità, la giustizia e la dignitas hominis. Eliminando dai nostri orizzonti civili comuni la memoria del passato, le lingue classiche, la musica, la letteratura, la geografia, la libera e pura ricerca scientifica, insomma tutte quelle discipline apparentemente inutili, quei lussi ritenuti superflui o facilmente surrogabili da macchine certo strabilianti ma al contempo onniscienti e stupide, difficilmente l’homo sapiens riuscirà a rendere più umana l’umanità. Ma la posta in gioco potrebbe persino essere più alta. Anche perché i disastri di una «web society» di cittadini iperinformati ma sempre più ignoranti sono ormai evidenti e preoccupanti per la tenuta stessa del nostro sistema democratico. L’immediata e gratuita accessibilità ad un’enormità di informazioni incontrollabili genera una perplessità rispetto alla quale Internet viene vista da molti come la soluzione, scavalcando le competenze dei soggetti socialmente preposti all’intermediazione. E senza l’attitudine critica per discernere e l’autonomia intellettuale per giudicare di cui solo una buona formazione umanistica può dotarci, il rischio è quello di scambiare i difetti della democrazia con la prova del suo fallimento. Ce lo spiega in un recente e acutissimo saggio (I geni invisibili della democrazia. La cultura umanistica come presidio di libertà, edito da Mondadori) Enzo Di Nuoscio da tempo impegnato nel ridisegnare i contorni di una strategia rivolta all’analisi delle sorti della democrazia e alla sua continua difesa. Con un’analisi appassionata e impietosa il filosofo italiano dimostra quanto le scienze umane e sociali siano necessarie appunto per sviluppare quel minimo di capacità critica, di intelligenza filologica e di autonomia di giudizio che rendono possibile l’ordine democratico; e pure quanto servano a difendere, arricchire, rendere condiviso e adeguare alle nuove esigenze quel prezioso patrimonio di valori, conoscenze, pratiche sociali che favoriscono l’affermazione della democrazia. Dopo che la tradizione umanistica ha avuto un ruolo decisivo per la loro affermazione, le liberaldemocrazie si ritrovano oggi nella pericolosa condizione di credere che nella società del profitto e dell’innovazione tecnologica lo studio delle scienze umane sia più una disciplina per eruditi e appassionati, che una risorsa per governare i cambiamenti continui e per difendere la propria natura. E ne abbiamo evidenza anche in Svizzera dove le materie umanistiche da troppo tempo faticano nel trovare una configurazione accademica sufficientemente attrattiva. Come osservava già Albert Einstein, invece gli studi umanistici sono necessari anche per favorire lo sviluppo proprio di quel sapere tecnico-scientifico che ogni giorno ci offre inedite possibilità di cambiare la nostra vita e di trasformare la società e per orientarlo affinché sia un prezioso alleato e non una minaccia per la democrazia.