L'editoriale

Si allarga il divario tra Europa e Stati Uniti

Sulle due sponde dell'Atlantico la differenza in termini di crescita economica è abissale
Generoso Chiaradonna
03.05.2024 06:00

Da mesi si guarda con attenzione a ciò che accade dall’altra parte dell’Atlantico non solo dal punto di vista politico. Il cambio di paradigma della politica monetaria da parte della Federal Reserve, prima atteso con trepidazione da analisti e soprattutto dai mercati finanziari che si alimentano oltre che di attese anche di liquidità, è rinviato a data da destinarsi. Dai quattro tagli previsti per quest’anno, si è passati a uno solo - forse – e a novembre. I motivi di tale prudenza sono sostanzialmente due: il mercato del lavoro corre troppo, come pure l’economia statunitense, mentre l’aumento medio dei prezzi rimane a circa il 3% l’anno, ben oltre il 2% ritenuto l’obiettivo della banca centrale per parlare di stabilità. La forbice del costo del denaro tra il 5,25% e il 5,5% rimane negli Stati Uniti la più elevata da 23 anni. Un fatto che non sembra aver frenato l’economia. Lo stesso presidente della Fed Jerome Powell ha constatato «l’assenza di progressi» sul fronte dell’inflazione: «I recenti indicatori suggeriscono che l’attività economica ha continuato a espandersi. Il mercato del lavoro resta solido e il tasso di disoccupazione basso. L’inflazione è rallentata nell’ultimo anno ma resta elevata. Negli ultimi mesi c’è stata una mancanza di progressi verso l’obiettivo del 2%». «Non ci aspettiamo che sarà appropriato ridurre i tassi fino a quando non avremo maggiore fiducia sulla traiettoria dell’inflazione verso il target del 2%», si leggeva nel comunicato diffuso al termine della due giorni di riunione del comitato di politica monetaria.

Le attese degli operatori di mercato sono ora rivolte alle decisioni di giugno della Banca centrale europea (BCE) che è però alle prese con una situazione macroeconomica completamente diversa rispetto a quella della Fed per gli Stati Uniti. Se dall’altra parte dell’Atlantico l’inflazione è spinta più dalla buona – a questo punto forse pure troppo buona – congiuntura economica, nella Vecchia Europa si è in una situazione opposta. I tassi d’interesse sull’euro sono ai massimi storici, cioè da 25 anni a questa parte ovvero da quando esiste la moneta unica. L’inflazione media ad aprile, in un’area geografica che va da Cipro alla Finlandia, era al 2,4%, in rapido assorbimento dai picchi del 2022. In Italia, per rimanere vicini a noi, l’aumento medio dei prezzi, sempre ad aprile, rispetto a un anno fa è stato dello 0,9%. Di quasi tre volte tanto – del +2,4% - l’aumento invece dei prezzi in Germania e Spagna. Questo per dire che quando si parla di zona euro sarebbe bene contestualizzare perché non sempre quello che va bene a una delle economie di uno dei membri, va bene a tutti.

Anche dal punto di vista della progressione del Prodotto interno lordo (PIL) le differenze da una sponda all’altra dell’Atlantico sono abissali: +1,6% nel solo primo trimestre, comunque sotto le attese degli analisti per quanto riguarda gli Stati Uniti. Secondo le stime più recenti pubblicate dall’Ocse, il PIL americano dovrebbe aumentare del 2,6% nel 2024 e dell’1,8% nel 2025, mentre quello dell’area euro dovrebbe registrare quest’anno una crescita media dello 0,7% e il +1,5% l’anno prossimo. Anche in questo caso la dinamica in seno alle singole economie europee ha caratteristiche e peso specifiche proprie: un conto è il +0,2% previsto per la Germania e un altro il +0,9% per l’Irlanda. Questo per quanto riguarda le stime per il futuro, sempre da confermare. Se si guarda al passato, nel solo 2023, la crescita americana è stata cinque volte superiore a quella dell’area euro pur con politiche monetarie restrittive praticamente in egual misura. Stando così le cose è quindi più probabile alla prossima riunione di giugno sia la BCE a tagliare i tassi guida – ora tra il 4,5% e il 4,75% - proprio per dare un minimo di sostegno alla congiuntura. C’è però altro dietro le differenze di crescita tra le sponde dell’Atlantico. Dopo la crisi finanziaria del 2008, i PIL delle due economie erano simili: 14.200 miliardi di dollari quello americano, 14.800 quello dell’Eurozona. Oggi, il primo è a 27 mila miliardi, il secondo poco sopra ai 15 mila. Una differenza di crescita enorme non spiegabile nemmeno tenendo conto della variazione dei tassi di cambio tra euro e dollaro a vantaggio di quest’ultimo. La differenza di andamento dell’anno scorso ne è una conferma.

Un campionato a parte lo sta giocando invece la Svizzera che ha nelle due aree economiche i suoi due principali mercati di sbocco per le merci e i servizi e con essa la Banca nazionale, primo tra gli istituti di emissione a cambiare rotta alla propria politica monetaria quando le esigenze lo hanno richiesto: a giugno 2022 iniziando il processo di rialzo dei tassi e a marzo scorso quando ha incominciato il percorso inverso. Il mercato del lavoro è solido, mentre l’inflazione - anche qui da un punto di vista puramente aritmetico - è rientrata nei ranghi. Rimane il cruccio per la perdita di potere di acquisto di salari e pensioni che è rimasto sul campo negli ultimi tre anni quale eredità di una fiammata inflazionistica più debole sì rispetto a eurozona e Stati Uniti, ma che appesantirà i bilanci delle famiglie ancora per i prossimi anni.