L'editoriale

Un velo per coprire le vergogne di un regime

Oggi, a oltre 40 anni di distanza dalle prime coraggiose battaglie per la libertà, il velo islamico divide più che mai la società iraniana
Osvaldo Migotto
05.12.2022 06:00

A quasi tre mesi dall’inizio delle imponenti proteste scoppiate in Iran il 16 settembre dopo l’uccisione di Mahsa Amini, la 22.enne della minoranza curda morta a Teheran mentre era agli arresti per aver indossato il velo in modo non conforme alla legge islamica, il procuratore generale, l’ultraconservatore Mohammad Javad Montazeri, ha lasciato trapelare un apparente messaggio di apertura. «La polizia morale (responsabile della morte di Mahsa Amini n.d.r.) non ha niente a che fare con la magistratura, ed è stata abolita da chi l’ha creata», ha affermato Montazeri nel corso di un incontro con il clero, nella città santa di Qom.

Per tentare di placare la rivolta popolare che prosegue in Iran nonostante la brutale repressione del regime che ha già causato centinaia di vittime, nel Paese degli ayatollah il Parlamento e il Consiglio Supremo della Rivoluzione Culturale starebbero esaminando la questione dell’hijab, il velo islamico, obbligatorio per le donne. Il procuratore generale iraniano ha promesso risultati in due settimane, ma ha già avvertito che sarà molto complicato far accettare una riforma alle autorità religiose. Soprattutto, aggiungiamo noi, considerato che lo scorso luglio il presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi aveva imposto nel Paese nuove restrizioni sull’abbigliamento. La rivoluzione iraniana del 1979, ricorda la reporter Chantal de Rudder che ha condotto uno studio sul velo islamico, è iniziata con ragazze che hanno indossato il chador come uniforme da combattimento contro lo scià. Ma poi quando al ritorno dall’esilio, nel 1979, l’ayatollah Khomeini introdusse l’obbligo del hijab, il giorno dopo, l’8 marzo, le donne iraniane scesero in strada per protestare contro tale misura.

Oggi, a oltre 40 anni di distanza da quelle prime coraggiose battaglie per la libertà, il velo islamico divide più che mai la società iraniana. Non solo perché, stando a un recente sondaggio, meno del 40% degli iraniani è favorevole alla legge sull’hijab, ma soprattutto perché molti cittadini non vedono nell’abbigliamento imposto dal clero un’espressione di appartenenza all’islam, quanto piuttosto una misura antidemocratica che viene a unirsi a tante altre misure repressive che colpiscono in modo particolare le donne iraniane. Donne che però hanno sempre mostrato grande coraggio e determinazione, impegnandosi molto anche nello studio, potendo così prender meglio coscienza delle difficili condizioni di vita imposte loro dal regime teocratico-militare che nel Paese fa il bello e il cattivo tempo.

Le iraniane e gli iraniani, in particolare i giovani, sono stufi di una dirigenza islamica austera, corrotta, ingiusta e brutale che ha portato il Paese verso l’isolamento internazionale e alla conseguente crisi economica, legata alle sanzioni contro Teheran per il suo temuto programma nucleare. Una rabbia che ha trovato un ulteriore fattore scatenante nella sanguinosa repressione finora portata avanti dai vari reparti armati che il regime ha messo in campo per mettere a tacere i manifestanti. Ora il presidente conservatore Ebrahim Raisi nel corso di una conferenza a Teheran ha detto che «la Costituzione ha valori e principi solidi e immutabili», aggiungendo però che «ci sono metodi di attuazione della Costituzione che possono essere flessibili». I prossimi giorni ci diranno fino dove riuscirà a spingersi tale flessibilità del regime degli ayatollah. I manifestanti per ora non si fidano e annunciano nuove proteste contro quel velo che i conservatori spacciano come simbolo dell’islam ma che in realtà appare come uno strumento artificiale con il quale coprire i veri problemi del Paese e un regime corrotto e vergognoso.

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