Il commento

USA: elezione presidenziale

Fortunatamente non devo votare negli USA – Ma è preoccupante che le espressioni politiche del Paese su 350 milioni di abitanti non abbiano trovato di meglio
Tito Tettamanti
Tito Tettamanti
04.10.2024 06:00

Tra cinque settimane gli americani eleggeranno la o il Presidente. Pur essendo la democrazia il migliore dei sistemi, quella americana, come tutte le altre, non è esente da pecche. Gli scontri sono violenti e senza esclusione di colpi in un Paese pure violento nel quale alcuni Presidenti sono morti ammazzati. Uno John F. Kennedy, parimenti assassinato suo fratello Bob, candidato alla presidenza. Si è ipotizzata, non so con quale fondamento, la vendetta del crimine organizzato per il fatto che il padre Kennedy non avrebbe mantenuto certi patti. L’influenza negli scontri elettorali di un tempo del sindacato dei camionisti, diretto da Hoffa, condannato per attività criminali, non contribuiva all’eleganza del dibattito. Ronald Reagan fu gravemente ferito in un attentato e quindi non stupiamoci se anche Trump si è salvato per qualche centimetro.

Gli USA sono come detto un Paese violento, bisnonni degli americani giravano ancora con la pistola nella fondina. Anche l’influenza di enormi somme di denaro che finanziano le campagne è un aspetto che non può venir dimenticato. Alcuni finanziatori, come qualche rivenditore d’auto d’occasione divenuto stramilionario, si aspettano quale riconoscenza per l’appoggio in soldoni la nomina ad ambasciatore. Il pensiero corre a Tayllerand e Metternich. Purtroppo, al di là di esagerazioni folcloristiche e dei dibattiti su chi mangia i gatti, senz’altro sopportabili, vi è oggi una lacerazione nel Paese che deve molto preoccupare. Quella che qualche anno fa Michael Sandel, un intellettuale di sinistra, ha denunciato con il suo libro «The Tiranny of Merit».

Un’America divisa tra la parte acculturata, che ha potuto studiare in prestigiose università, ottenuto i posti migliori nel mondo degli affari, dei media, della cultura e definisce arrogantemente, come ha fatto Hillary Clinton, l’altra America, quella del mondo rurale, del Middle West, delle industrie chiuse, dei bianchi più poveri e meno assistiti degli afroamericani, «deplorable». Un’America di intellettuali snobisticamente incapricciati con sinistrismi di maniera, che impone il politically correct nel linguaggio, contesta la genetica, si schiera per la diffusione di atteggiamenti e realtà minoritarie sostenendo il mondo LGBT e si dimostra tollerante con l’uso di droghe. Ora, nel «Rust Belt» i bianchi che faticano a tirare la fine del mese non capiscono questo linguaggio e istanze, e dei gabinetti per i transgender proprio non gliene frega niente.

I massimi organi di stampa quali il New York Times o il Washington Post, come pure televisioni, mondo del cinema, Università in favore di questa nuova società sono situati nelle metropoli quali New York, Chicago, Los Angeles, San Francisco e dimenticano il resto del Paese, quello delle classi più modeste. Il loro atteggiamento ha permesso a un Trump di venir eletto Presidente nel 2016. Purtroppo, quella sconfitta non ha insegnato loro niente ed oggi si affrontano nuovamente le due componenti sociologiche del Paese.

Kamala Harris, madre indiana e padre giamaicano, viene presentata quale alfiere di un’America dell’immigrazione. Si dimentica che la madre indiana era della casta dei Bramini, la più elevata e ricca, e oltretutto una stimata professoressa. Il padre giamaicano, sì, ma professore e autore di successo, marxista convinto, appartenente all’élite intellettuale del Paese. La carriera della Harris è stata quella dei giovani privilegiati per censo e posizione, dalla prestigiosa università, agli studi legali, alle cariche giudiziarie e infine politiche. È ingiusto giudicarla dalle sue attività di Vice Presidente, carica difficile. Potrebbe avere qualità ma non tentiamo di spacciarla per una figlia di emigranti venuta a galla con sacrifici nel «melting pot» statunitense. Rappresenta la sinistra californiana. Ciò che conta per giudicarla è quanto affermato nel suo discorso programmatico. Dimentichiamo la spicciola demagogia del regalo di 25.000 dollari a chi compera la prima casa. Soldi buttati al vento. Raccapricciante è l’idea di un controllo dei prezzi nel settore alimentare. Politica che porta alla penuria dell’offerta e già fallita in altri casi. In un Paese che deve difendersi dall’inflazione la strategia della Harris sta nella continuazione della politica super inflazionistica, di super indebitamento, statalistica e di pianificazione di Biden. Più inflazione per combattere l’inflazione: bizzarra ricetta.

Trump non mi piace, appartiene a quella schiera di immobiliaristi di New York che ho conosciuto: arroganti, prepotenti, spesso incolti, inclini a far sopportare le perdite alle banche e a tenersi gli utili per loro. Proprio questo mio pregiudizio mi permette di dire che l’uomo non è privo di intuito politico, ha capito quale poteva essere il suo elettorato, ha trovato il linguaggio giusto, anche se pericoloso, per loro e nell’attentato ha dimostrato grinta. Quale Presidente non ha commesso gli errori in politica estera di Obama, persona preparata e colta. Caratterialmente non lascia tranquilli e pure la politica di protezionismo con aumento dei dazi che lui preconizza non ha mai dato buoni risultati.

Fortunatamente non devo votare negli USA. Ma è preoccupante che le espressioni politiche del Paese su 350 milioni di abitanti non abbiano trovato di meglio.