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Alle origini del male

A colloquio con Paolo Pierobon interprete di «Eichmann. Dove inizia la notte» in scena a Locarno e Chiasso
© Tommaso Lepera
Mauro Rossi
18.03.2022 12:00

Nel 1960 venne arrestato in Argentina Adolf Eichmann, il gerarca nazista responsabile di aver pianificato e organizzato lo sterminio di milioni di ebrei. Esaminando i verbali degli interrogatori svoltisi a Gerusalemme, gli atti del processo, la storiografia tedesca ed ebraica e prendendo spunto dai testi della filosofa e politologa di origine ebraica Hannah Arendt, Stefano Massini ha tratto un testo Eichmann. Dove inizia la notte, in scena martedì 22 e mercoledì 23 marzo alle 20.30 al Teatro di Locarno (prenotazioni qui) giovedì 24, sempre alle 20.30 al Cinema Teatro di Chiasso (prenotazioni qui). Un atto unico che mette in scena un’immaginaria intervista di Arendt (interpretata da Ottavia Piccolo) a colui che, molto più di altri personaggi, incarna la traduzione della violenza in calcolo, in disegno, in schema effettivo: il volto del male, insomma, che però, se esaminato da vicino, scopriamo assomigliare a noi molto più di quanto si possa immaginare. A prestare il volto a questo «mostro» spaventosamente normale, privo di alcun talento, salvo quello di sapersela cavare, che stupisce più per la sua bassezza che per il suo talento è Paolo Pierobon, attore dalla straordinaria versatilità che, da anni, si muove con successo tra cinema, tv e, soprattutto, teatro dove è stato diretto da autentici maestri come Elio De Capitani, Eimuntas Nekrosius e, soprattutto, Luca Ronconi di cui è stato uno dei collaboratori di riferimento.

L'attore Paolo Pierobon. © Tommaso Lepera
L'attore Paolo Pierobon. © Tommaso Lepera

Quanto è difficile calarsi in un ruolo quale quello di Adolf Eichmann, personaggio così terribile ma anche così drammaticamente normale?
«Più vado avanti coll’età e nei ruoli, più capisco che non bisogna dividere tutto in bianco o nero, ma cogliere le sfumature e capire che, lasciando perdere i casi più estremi o di devianza mentale, una persona può essere allo stesso tempo sia buona sia cattiva. Ed è quello che ho cercato di fare con la figura di Eichmann, da un lato sospendendo ogni giudizio nei suoi confronti in modo da poterlo interpretare al meglio; dall’altro cercando di riconoscere che dentro ciascuno di noi ci sono delle cose che possono accomunarci a lui. Le cose da cui è partito, infatti, sono banali, del tipo “all’inizio sono entrato nelle SS per avere la divisa perfetta, il tovagliolo al collo per mangiare lo stinco marinato, gli stivali puliti…”. A quel punto capisci che il suo percorso iniziale non c’entra nulla con l’ideologia nazista, è più una sorta di vanità demente, il desiderio tutto parvenu di mettersi in evidenza nella società. E che le ragioni che possono spingerti su un determinato sentiero, talvolta sono spesso molto banali, il che non vuol dire, tuttavia, normali».

Un’analisi che non può non ricollegarsi a ciò che stiamo vivendo in questi giorni: dalla guerra in Ucraina alla cattiveria imperante a tutti i livelli, soprattutto sui social media…
«È vero. Combinazione vuole che lo spettacolo abbia debuttato al Piccolo Teatro di Milano lo scorso 24 febbraio, proprio il giorno in cui Putin ha iniziato l’invasione dell’Ucraina. Inevitabilmente il testo ha dunque immediatamente avuto un impatto più potente di ciò che pensavamo. Sia sul pubblico, sia per noi attori. Per cui si è creato un cordone emotivo che prima non era così presente e che invece adesso sentiamo e che aiuta molto a veicolare il nostro discorso. Però è altrettanto vero che anche prima dello scoppio del conflitto si avvertiva un momento di abbrutimento totale che la pandemia, attraverso i social media, ha ulteriormente amplificato: assistiamo infatti a cattiverie incredibili in ogni contesto, oggi è tutto un gioco a sputtanarsi, criticare, sparlare sempre in modo superficiale. Non so dove andremo a parare se non recupereremo un po’ di disciplina e un po’ di etica».

Quanto il teatro può aiutare a migliorare questo quadro?
«Il teatro bisogna anzitutto farlo bene. Quindi è necessario che tutti noi che ci lavoriamo si faccia un esame di coscienza chiedendosi se davvero veicoliamo bene i nostri messaggi, se quando ci presentiamo sulla scena sappiamo tener conto delle nuove dinamiche della comunicazione. Se questo viene fatto, allora il teatro può servire a far riflettere, come dimostra il successo che sta incontrando il nostro spettacolo un po’ ovunque. Il che potrebbe sembrare strano, soprattutto in un periodo come questo, stretto tra la pandemia, Putin e l’alone d’incertezza che ci circonda e che dovrebbe far fuggire il pubblico da un testo così impegnato, crudo e drammatico come il nostro. Invece la gente viene perché credo proprio che in questo momento ci sia un bisogno di partecipazione e non ci sia tanta voglia di svagarsi quanto piuttosto di capire. Però bisogna offrirle qualcosa che l’aiuti».

Torniamo, a questo punto, ad Eichmann. Dove inizia la notte che in quanto ad intensità, tensione e sforzo attoriale (visto che si tratta di un dialogo tra due persone che si protrae per un’ora e mezza) ha davvero molto da offrire.
«Assolutamente si. È uno spettacolo in cui io e Ottavia Piccolo abbiamo in mano tutto: la scenografia è infatti minimale, il dialogo tra i due protagonisti è immaginario. Oltre tutto noi, non essendo al cinema, non offriamo due figure biografiche, bensì interpretiamo due attitudini. Io quella nazista, ultranazionalista, e Ottavia la filosofa ebrea. La sfida è stata di non ridurre tutto questo ad un talk show o ad un interrogatorio, ma esplorare il più possibile e avvicinare il più possibile soprattutto la figura di Eichmann a qualcosa di molto più concreto che non sia l’avulso male nazista, ma una persona che puoi anche incontrare per strada. In modo da far capire che tutti possono avere quel tipo di partenza, guidata da arrivismo, carrierismo, meschinità, arruffianamenti vari, ignoranza, vanità. Poi molti si fermano ai piccoli successi o ai piccoli fallimenti; qualcun altro invece, come Eichmann, va molto oltre. E vedere che certe partenze ottuse e arriviste sono più comuni di ciò che si possa pensare, è un modo per avvicinare certi comportamenti a situazioni più diffuse».

Quanto le è servito nell’affrontare questa esperienza il lavoro con autentici santoni del teatro come Nekrosius e Ronconi?
«Tanto. Mi sento fortunato ad aver lavorato al loro fianco – anche se va detto che poi te lo devi guadagnare tutto ciò. Ronconi era un personaggio complesso, esigente, pretendeva molto però anche lui, spesso, era il contrario di quello che appariva, colpendoti per la semplicità delle intuizioni, e per la chiarezza, senza troppi arzigogoli, delle sue scelte. Nekrosius era agli antipodi di Luca come concezione registica, ma c’era qualcosa che li accomunava: ossia un’ostinazione eroica, una straordinaria determinazione nel portare avanti la propria visione».

© Tommaso Lepera
© Tommaso Lepera

E a proposito di visioni: cosa c’è, dopo Eichmann, nel domani di Paolo Pierobon?
«Prossimamente andrà in onda sua RAI 1 una serie su Aldo Moro curata da Marco Bellocchio in cui la vicenda dello statista italiano viene ripercorsa in una serie di puntate monografiche dal punto di vista di diversi protagonisti di quel periodo. E poi tanto teatro: dopo due anni di lontananza dalle scene ho infatti tanta voglia di palco, di tournée, di stare sul pezzo duro, soffrendo. A tal riguardo sto lavorando su uno dei miei grandi sogni, il Riccardo III di Shakespeare diretto dall’ungherese Kriszta Szekely, con cui prima del lockdown ho fatto Zio Vanja di Cechov. Poi c’è pure in programma un lavoro con il LAC di Lugano e con Carmelo Rifici: una pièce di Alcide De Gasperi con la drammaturgia di Angela De Mattè».

Ma tra teatro, cinema e tv cosa preferisce?
«Non ho un mezzo prediletto: sono i progetti ad interessarmi più che dove vengono sviluppati. Mi diverto infatti sia sul set che sul palco sebbene siano due mestieri diversi. Non ho preferenze particolari: dipende dal progetto».

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