Detto tra noi

C’era una volta il calcio...

Una volta il calcio era divertimento, oggi è "business": vale ancora la pena di seguirlo?
Mauro Rossi
28.07.2023 06:00

C’era una volta il calcio. Era uno sport semplice e proprio per questo amatissimo. Lo si praticava ovunque, nelle strade, nei cortili, sui prati, ovunque c’era uno spazio non troppo in pendenza. Necessitava di pochissimi mezzi: un pallone (ma se non c’era lo si poteva sostituire con qualsiasi altra cosa, una lattina vuota, anche un sasso, purché non troppo grosso) due maglioncini o qualsiasi altro indumento per segnare una porta e un numero indefinito di protagonisti che variava da uno a cinquanta specie quando, da piccoli, nessuno voleva rimanere escluso. Poi però qualcuno all’interno di questo gioco amatissimo ha iniziato ad intravedere l’affare o, per dirla come gli americani, il «business». E tutto ha iniziato a cambiare. Inizialmente in meglio poi, però, gradatamente, peggiorando una situazione cha iniziato la sua fase degenerante quando qualcuno ha capito che la disciplina, oltre ad essere diventata una macchina fabbrica soldi, poteva essere trasformata in un importante volano per far passare altre cose, altre idee, altri messaggi anche di carattere politico. E da gioco ha iniziato a diventare qualcos’altro. Anzitutto la sua pratica, soprattutto tra i più giovani, si è spostata dai cortili e dagli oratori (ne esistono ancora?)alle «academy» che alle famiglie e ai ragazzi costano una fucilata e sostanzialmente non insegnano alcunché del vero spirito dello sport. Poi, nel suo segmento più elitario, è diventato importante l’elemento spettacolo piuttosto che quello legato all’essenza del gioco. Sono entrate in scena le televisioni e i soldi. Tanti soldi, un’enormità di soldi che, soprattutto nell’ultimo periodo, stanno dando all’insieme un che di assurdo, con proposte di ingaggi per i migliori protagonisti che si aggirano attorno al miliardo di franchi annui e altre cifre assolutamente fuori da ogni logica investite per accaparrarsi personaggi bravini, ma non certo dei fenomeni né dal punto di vista atletico-sportivo né umano e sociale. Il tutto con l’intento di ribaltare in pochissimi mesi scale di valori e tradizioni che hanno impiegato decenni, se non addirittura un secolo, a diventare tali ma soprattutto per dare una patente di nobiltà e di rispettabilità a chi non ce l’ha e neppure se la merita. C’era insomma, una volta il calcio. Oggi al suo posto c’è un Moloch cinico, spietato e, sostanzialmente, vuoto al suo interno. Scriveva Borges: «Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada lì ricomincia la storia del calcio». Ecco, probabilmente dovremmo iniziare a spegnere le nostre tv e a disertare gli stadi, lasciando quell’infernale macchina che impropriamente oggi chiamiamo calcio, ad arrugginirsi da sola e ricominciare – sia da praticanti che da appassionati – a vivere quello che rimane un meraviglioso gioco in modo più semplice e più vero.

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