L’ingegnere e le erbacce del vialetto
Accanto alla casa in cui sono cresciuto c’era la villa di un celebre ingegnere, un anziano e austero signore che compariva spesso sia sui giornali sia alla televisione per i suoi lavori grazie ai quali aveva guadagnato fama e ricchezza. Un vero «vip», insomma, che però io ricordo come persona gentile, riservata e piuttosto particolare per un motivo: appena arrivava in quella che era la sua casa di campagna, si toglieva l’abito elegante, indossava un paio di vecchi e malandati pantaloni, una sgualcita maglietta e, cappello di paglia in testa, passava le giornate seduto per terra a strappare erbacce dal vialetto di casa, dalle aiuole oppure a curare meticolosamente il suo orticello. Il tutto rigorosamente da solo, in silenzio, alzandosi unicamente per dissetarsi o, quando la moglie lo richiamava, per i pasti. Nessuna concessione alla mondanità, non una capatina al bar o in piazza durante le feste estive, così come rare le occasioni in cui riceveva delle visite. Solamente lui, il suo giardino e le sue erbacce da estirpare per lunghi weekend oppure per l’intero periodo estivo che trascorreva in quella casa. Una condotta che personalmente giudicavo un po’ bizzarra: con la fama, le opportunità e le risorse finanziarie di cui godeva, perché si riduceva a trascorrere il tempo in quel modo, quasi fosse un povero eremita – mi chiedevo. Perché invece di star lì a strappare le erbacce non ingaggiava un giardiniere e se ne andava a zonzo per il pianeta concedendosi tutta la mondanità che poteva permettersi? Probabilmente – ritenevo – al di là della sua fama e del suo talento, doveva avere qualche rotella fuori posto. Ho ripensato al vecchio ingegnere lo scorso fine settimana quando, oltre mezzo secolo dopo, mi sono ritrovato nei suoi panni. Certo, senza il suo prestigio e i suoi soldi, ma animato dallo stesso desiderio: mettermi in libertà e dedicarmi pazientemente al giardino, incurante del tutto il resto, dimenticando il lavoro, le preoccupazioni, ogni altra incombenza e quant’altro a favore di un’occupazione semplice, solitaria, per certi versi primitiva quale estirpare erbacce sotto il sole, ma che ha il potere di riconciliarti con il mondo nella speranza di ridargli – anche se solo in quel pezzettino di terra affidato alle mie cure – quella parvenza di ordine, di naturalità e di armonia che troppo spesso latita. E nel contempo, mentre le mani si muovono alacremente in modo quasi automatico, ritrovare il piacere di rimanere soli con se stessi, con i propri pensieri che, svincolati da tutto e da tutti, iniziano a fluire in modo spontaneo, naturale e carico di quella fantasia che la frenetica quotidianità tende a soffocare. Una dimensione quasi estatica, di grande serenità alla quale l’ingegnere era probabilmente arrivato mezzo secolo fa. In barba a quel ragazzino che frettolosamente lo aveva etichettato come un vecchio matto...