Il reportage

Nel ventre della montagna il silenzio parla e il buio illumina

Entrare nel Sasso da Pigna vuol dire lasciarsi alle spalle la frenesia del Passo e immergersi nella storia: un viaggio intimo e sorprendente, una riflessione tra parole, ricordi e immagini
Martina Ravioli
21.07.2022 08:00

In ogni locale c’è una candela e un acciarino, vestigia di un tempo che fu. Su quasi ogni roccia scivola una goccia, fonte di vita che sgorga e che nel silenzio sembra cantare. Varcata la soglia si entra in un’altra dimensione e il viaggio può avere inizio. Me lo aveva detto il già Divisionario Francesco Vicari, che in fortezze come il Sasso da Pigna ha trascorso un centinaio di notti dei suoi 2.250 giorni di servizio attivo, quando in maggio ha aperto per me il suo scrigno dei ricordi. Abbiamo parlato per quasi tre ore in un caldissimo pomeriggio di un’assolata primavera luganese. «I ricordi del tempo passato nel cuore della montagna sono tanti, ma le sensazioni più vivide sono due: il buio e il silenzio. La notte, quando tutti dormivano, ero da solo e mettevo ordine nei miei pensieri e allora la candela poteva tenermi compagnia». Ed ora che, qualche settimana dopo mi trovo anche io immersa nella stessa roccia che ha ospitato azioni e pensieri di migliaia di uomini in più di mezzo secolo, non posso che essere d’accordo con lui. Il buio e il silenzio qui, decine, talvolta centinaia di metri sotto la roccia, possono essere completi, ma non mi fanno mai paura. Forse dovrei averne. Dopotutto parliamo di guerra, perlomeno in via ipotetica. Il Ridotto Nazionale Svizzero ha servito la Patria ed è servito allo scopo: mostrare i muscoli ed impedire così un’invasione durante la Seconda Guerra Mondiale e, successivamente, aiutare a mantenere gli equilibri durante la Guerra Fredda. E proprio il fatto di aver avuto opere fortificate permanenti, mi spiega Vicari, e non averle dovute usare, è la miglior dimostrazione del valore dissuasivo che esse hanno dato alla nostra difesa nazionale, poiché essere completamente indifesi e rompere il delicato equilibrio su cui si regge la pace, espone a rischi enormi. Ma allora, mi chiedo, perché l’emozione prevalente dentro queste gallerie è una sorta di fascino, quasi una malia che mi attira verso le viscere del San Gottardo, sempre più in profondità, quasi a volermi far perdere in questi cunicoli lunghi chilometri che si addentrano nel duro granito di una montagna più simbolo della Svizzera che, forse, lo stesso praticello del Grütli? La risposta è da cercare nella forza aggregativa di un luogo tanto radicato nell’epicentro della nazione da radunare alle sue pendici l’intero esercito e alle sue falde tutto il popolo unito nella battagliera convinzione che «Nie wird auf dem Gotthard eine andere als die Schweizer Flagge wehen!» (Non si vedrà mai sventolare una bandiera diversa da quella svizzera sul Gottardo!).

©CdT/Chiara Zocchetti
©CdT/Chiara Zocchetti

Sentimento comune

Non sono da sola. Anche Chiara è incantata quanto me e si perde ad immortalare particolari minuti - vecchie strumentazioni di calcolo, il ritratto del Generale Guisan nella sala mensa che sembra quasi augurare «Buon appetito!», il servizio di piatti del Corpo delle Guardie di Fortezza- e la grande opera architettonica del Forte - la lunga galleria di collegamento, 400 metri con 20 metri di dislivello, la funicolare lunga 170 metri con 80 metri di dislivello e 475 scalini, le pesanti porte blindate, la grotta-obitorio (altre foto su cdt.ch). In questo viaggio ci accompagna il Direttore della Fondazione Sasso San Gottardo, Damian Zingg. Nato il 4 dicembre, giorno di Santa Barbara Patrona dei minatori e degli artiglieri, entrato a far parte dell’Associazione Svizzera per la ricerca delle miniere storiche a 15 anni, militare nell’Artiglieria di Fortezza: insomma, una guida d’eccezione. La sua passione è talmente forte e contagiosa che una visita che avrebbe dovuto durare un paio d’ore si trasforma in un’intera giornata alla scoperta di un luogo unico i cui muri di roccia, e talvolta calcestruzzo, raccontano la vita di centinaia di militi che qui hanno fatto corsi di ripetizione e servizio militare, di segreti ben custoditi, di piani di difesa, di progetti non andati in porto, di tecnologie all’avanguardia, di cristalli giganti, di studi per il futuro (che ci crediate o no nel Sasso da Pigna ci chiudono anche possibili futuri astronauti per testare la loro resistenza al lavoro di squadra senza contatti con il mondo esterno), di nipoti che riscoprono e rivivono i ricordi dei nonni, di condanne a morte, di moderni guardiani del forte e di antichi cunicoli le cui mappe sono andate perdute. «La Fondazione Sasso San Gottardo svolge il suo lavoro grazie a 6 collaboratori e ad una ventina di volontari. La fatica e i costi sono tanti, ma la passione è immensa e la voglia di trasmettere la storia di questa fortezza storica ai visitatori ancora di più. Quello che colpisce me e i miei collaboratori è che tutte le persone che vengono in visita vivono emozioni differenti qui dentro. C’è chi torna più volte e ad ogni visita scopre particolari nuovi. C’è chi viene decenni dopo avervi prestato servizio e ritorna con la mente a quando il contabile pagava il soldo militare allungandolo fuori dallo sportellino e con quei pochi franchi si poteva prendere un caffè o un bicchiere di vino dopo il rancio consumato in compagnia (e si sprecano gli aneddoti sui furieri militari che utilizzavano le scorte alimentari per ottemperare al «consumo obbligatorio» e non ne erano entusiasti visto che dovevano al contempo far quadrare i conti). Ci sono nipoti che vengono per vedere se si erano immaginati correttamente le gallerie, i cunicoli, i cannoni dei racconti dei propri nonni. Ci sono turisti di passaggio che ci scoprono per caso, ci sono giovani di leva che vengono per vedere come si faceva il militare una volta e c’è chi è più interessato alle esposizioni temporanee. Insomma: questo è un luogo che davvero non lascia indifferenti» spiega Zingg con gli occhi che brillano e io non posso che dargli ragione.

©CdT/Chiara Zocchetti
©CdT/Chiara Zocchetti

La storia

La strategia del Ridotto Nazionale e le relative opere di fortificazione sono entrate nel vivo a partire dal 1939. Scrive Vicari nell’articolo «Sasso da Pigna: una testimonianza del passato da visitare» apparso sulla Rivista militare della Svizzera italiana nel 2013: «Il forte disporrà di quattro casematte ognuna con un cannone modello 42 da 15 cm L 42 e con una gittata pratica di 23,5 Km e massima di 25,5. Due cannoni formano una batteria; una batteria copriva il settore della Valle Bedretto, dell’Ossola, del Gries e della Novena, mentre l’altra il settore della valle Leventina e dell’alta valle di Blenio fin sul Lucomagno. L’opera è rimasta in esercizio dal 1944 al 1998». Insomma, quanto bastava per tenere a bada le mire espansionistiche che premevano da più lati sulla Confederazione e per trasformare la Svizzera in un «riccio spinoso», l’Igel, della filastrocca allegorica di Wilhelm Busch. L’opera era segreta, ma non segretissima e ingenuamente sgrano gli occhi quando sia Vicari che Zingg me ne spiegano il motivo: evidentemente non potrei fare la spia. Il nemico non doveva sapere la vera potenza di fuoco o l’esatta disposizione e tipologia delle armi, come neppure il numero degli uomini, ma qualche informazione sull’esistenza delle fortezze e sul loro raggio d’azione, magari anche gonfiata ad arte, veniva lasciata trapelare apposta. In questo modo la Svizzera si mostrava ben agguerrita e i comandi militari delle potenze ostili si rendevano conto che un attacco avrebbe avuto un esito incerto o troppo dispendioso. Inoltre, il Sasso da Pigna teneva sotto tiro Passo San Giacomo, che in linea d’aria dista solo 13 Km, in caso Mussolini avesse deciso di concretizzare l’infausto proposito di invasione. Il segreto di questo forte era così importante che uno dei 17 condannati a morte durante le Seconda Guerra Mondiale lo è stato proprio perché ha tentato di passare informazioni sul Forte a spie tedesche, copiando i piani di costruzione.

©CdT/Chiara Zocchetti
©CdT/Chiara Zocchetti

La tecnologia

Per tanti anni questo luogo ha vissuto di luci e di ombre, di cose conosciute e cose sconosciute, di cameratismo tra commilitoni e di segreti condivisi, ma poi è stato desecretato e sono arrivati i progetti di riqualifica. Qualcuno ha anche pensato di farci un parco termale, prima di rendersi conto che sì, l’acqua sorgiva c’è, ma riscaldarla dai 4°C ad una temperatura quantomeno accettabile avrebbe richiesto un dispendio eccessivo. «La prima volta che sono entrato qui era il 2012. C’era un gran fermento di operai. Il cantiere per il museo era in piena attività, sembrava una città sotterranea, un mondo dinamico. Oggi si può visitare gran parte dell’opera originale, ma molte gallerie sono chiuse e non ristrutturate poiché la struttura è davvero immensa. Nei vecchi acquartieramenti delle truppe e dove si trovavano i magazzini e l’infermeria abbiamo ricavato i locali per le esposizioni temporanee e per eventi. Qui è anche ospitato e visibile il più grande cristallo mai trovato sull’arco alpino. In questa zona si può vedere il generatore d’emergenza a nafta e iniziare a percepire l’atmosfera che vivevano le truppe. La struttura era pensata per dare alloggio e riparo a 400 uomini con un’autonomia totale, indipendente da supporto esterno, per 6 mesi. La tecnologia per l’epoca è estremamente all’avanguardia: impianti di ventilazione con filtri per polveri atomiche e flusso costante per evitare accumuli di radon, depurazioni di acque fognarie con scarico lontano dalla fortezza per impedire a eventuali spie nemiche di trovare l’entrata e capire quanti uomini ci fossero, impianti di illuminazione ovunque, temperatura confortevole negli alloggiamenti (16-18°C costanti estate e inverno, ca. 6°C nelle gallerie di collegamento). E tutto questo è stato costruito in soli 4 anni!» spiega orgoglioso il Direttore e io continuo a stupirmi metro dopo metro e ancora di più quando lasciamo la parte dedicata alle esposizioni e imbocchiamo i 400 metri della galleria che ci portano verso la «metro del sasso» cioè la funicolare che ci porterà nella zona superiore, lasciata allo stato originale e dove è possibile visitare i dormitori, la mensa, le postazioni dei cannoni, i magazzini delle munizioni e uscire sulla meravigliosa terrazza panoramica.

©CdT/Chiara Zocchetti
©CdT/Chiara Zocchetti

Le curiosità

In 3 minuti di funicolare siamo nella zona delle casematte. Non invidio i militi. Loro facevano a piedi tutti i 475 scalini, poiché la piattaforma era solo per le granate. C’è da dire, però che ogni granata pesava 42 kg e portarle su a mano sarebbe stato davvero complicato. La zona del magazzino delle munizioni è separata dal resto da una doppia porta blindata che non poteva mai stare aperta in contemporanea. In una fortezza nella roccia un’esplosione di questo tipo sarebbe catastrofica. Il deposito conteneva tra le 10 e le 20mila granate e accanto Zingg mi mostra una porticina. I militi avevano pensato a tutto: un piccolo deposito contiene anche un tubo di cannone di scorta per sostituire quello usurato dopo numerosi tiri. Dal 1944 al 1998 sono stati sparati circa 40.000 colpi da questi 4 cannoni e lungo il percorso si possono vedere ancora dei filmati. Sui muri graffiti, disegni, frasi ironiche lasciate da soldati particolarmente ispirati e goliardici. Nei dormitori quello che colpisce è un piacevole tepore, le divise appese, i piccoli armadietti assegnati ad ogni soldato, le camere singole, ancorché spartane, per gli ufficiali, con i servizi igienici in comune, le rastrelliere dei fucili e ovunque delle porticine nei muri. Zingg ne apre una: non porta da nessuna parte. Dietro al muro, 80 cm di vuoto e poi roccia. È vero, siamo nella montagna, ma in questo dormitorio non sembra più. A parte l’assenza di finestre, è una caserma come un’altra. Mi vengono in mente le parole di Vicari nel caldo pomeriggio luganese. «Tutto era fatto e pensato per dare la parvenza della massima normalità possibile. Nell’infausta ipotesi di una guerra, in caso si fosse dovuto passare lì sotto molto tempo, bisognava mantenere alto il morale della truppa e procedere con una quotidianità simile a quella vissuta all’esterno». E così era. Passando nei locali vediamo la cabina del telefono: anche da qui si chiamava casa, senza dire da dove ovviamente, e si litigava se un commilitone stava troppo all’apparecchio; si pregava, c’era il cappellano protestante e quello cattolico con i loro oggetti sacri; c’era tanto cameratismo; c’erano divieti, non tutti i militi potevano girare liberamente in tutto il forte. Insomma, c’erano storie che meritano di essere raccontate, ma ancora di più di essere scoperte in prima persona. In Svizzera ci sono ancora fortezze coperte dal segreto militare. Ospitano strutture sensibili e posti di comando. Il Sasso da Pigna - Sass in dialetto- oggi conosciuto come Sasso San Gottardo, non lo è più, ma il suo ruolo non è finito: ha ancora tanto da insegnarci per capire il passato, riflettere sul presente e immaginare il futuro. 

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