Approfondimento

Un male invisibile e stigmatizzato, difficile da spiegare e da comprendere

Di dolore cronico non si muore, ma la sofferenza a volte è tale da far pensare al suicidio – Per chi soffre e per chi cura la sfida è ardua, ma si può stare meglio
Martina Ravioli
18.08.2022 14:30

Sfuggire. Se c’è una cosa che è bravo a fare il dolore cronico è proprio questa: sfuggire. Difficile da diagnosticare, complesso da trattare. Si sottrae al riconoscimento sociale e spesso non viene compreso dai medici né accettato dai pazienti. Fa scappare la pazienza dei datori di lavoro, confrontati con lunghe assenze e cali di produttività. Fa dileguare amici e sottrae voglia di vivere, energia e speranza a chi ne è colpito. Talvolta elude le maglie degli ammortizzatori sociali e può condurre alla povertà. Ma chi ne soffre non può, da solo, scampare alla sua morsa né evitare di fronteggiarlo. Il dolore cronico è una sfida e solo affrontandolo si può riguadagnare una buona qualità di vita, magari con altri ritmi, con alcuni compromessi, con una maggiore consapevolezza e al contempo un’accresciuta forza. Una rinascita ad un nuovo domani poiché quando si parla di dolore cronico c’è sempre un prima e un dopo.

Quando tutto ha avuto inizio

Il dolore cronico non è solo quel fastidioso mal di schiena che a volte impedisce di fare jogging in pausa pranzo. Non è neppure, unicamente, quel filo di mal di testa che accompagna qualche giornata particolarmente faticosa. Il dolore cronico è devastante e totalizzante. Qualcuno lo paragona ad una fiamma ossidrica sulla pelle, altri a mille spilli che trafiggono il fisico. Un corpo può essere bruciato dall’interno, un nervo percorso da scosse elettriche talmente forti da far impazzire. I momenti di quiete sono solo quelli dell’agognato sonno che, quando e se finalmente arriva, arreca pace al tormento. «Sono una persona che ha incontrato sulla sua strada il dolore cronico. Ho conosciuto la devastazione e la disperazione. È stata l’esperienza più dura della mia vita, ma ne sono uscita con perseveranza e fatica e non auguro a nessuno questo incontro». È così che risponde Elena Pellanda alla domanda «Chi sei?». Ma Elena è molto di più. Da donna è diventata paziente e poi, una volta rinata, fondatrice di Filo di Speranza, Associazione svizzera per la nevralgia del pudendo e le neuropatie dolorose.

Elena Pellanda, presidente dell’Associazione Filo di Speranza. ©CdT/Zocchetti
Elena Pellanda, presidente dell’Associazione Filo di Speranza. ©CdT/Zocchetti

Già nel 2004 l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’International Association for the Study of Pain e l’European Federation of IASP Chapter hanno organizzato la prima «Giornata mondiale contro il dolore» con l’obiettivo di richiamare l’attenzione, a livello globale, sull’urgente bisogno di affrontare il tema, ma la strada è ancora lunga. Il dolore cronico è, infatti, una vera e propria malattia e lo scopo non è curare ciò che lo ha causato poiché tale evento a volte non è nemmeno individuabile, ma è modulare il dolore grazie ad una strategia integrata e ad un approccio multidisciplinare. E proprio qui torniamo all’inizio. Il dolore cronico sfugge e chi ne è colpito si sente abbandonato, come Elena che racconta: «Per molto tempo mi sono sentita non compresa e non creduta dai medici che, non trovando una causa fisica al problema, erano convinti che fosse tutta una questione psicologica. C’è stato addirittura un momento in cui sono arrivata a pensare al suicidio tale era la disperazione. Poi ho incontrato, finalmente, degli specialisti grazie ai quali ho iniziato a stare meglio e a riprendere in mano le redini della mia vita ed è stato allora che mi sono detta che tanto dolore non poteva restare fine a se stesso, ma doveva servire a qualcosa. Per questo ho fondato l’associazione. Vogliamo essere una rete di sostegno per chi non ce la fa, per chi non sa più, letteralmente, dove sbattere la testa, per coloro che sono ad un passo dal mollare tutto. Abbiamo specialisti che sanno come affrontare il dolore cronico, che possono aiutare a stare meglio. Chi soffre è sempre il protagonista, ma spesso non ha la forza di cercare in lungo e in largo qualcuno che lo aiuti. Ecco, noi vogliamo portare le competenze là dove servono».

Le sfide e i dati

E di conoscenza e sensibilizzazione a tutti i livelli ve ne è un gran bisogno. Il dolore cronico serpeggia nella società e da fuori non si vede. Chi ne soffre spesso lo nasconde, finché può. Fuori si mostra sorridente e solare, dentro soffre e tira avanti come riesce. Non vive, ma sopravvive. «In Svizzera si stima che il 16% della popolazione soffra di dolore cronico e questo non include solo persone anziane, ma anche tanti giovani e persone in età lavorativa» spiega Elena Pellanda che continua: «Quando abbiamo aperto l’associazione, la nostra hotline ha ricevuto moltissime chiamate e questo è un segnale chiaro che c’è tanta gente che sta male e non sa a chi rivolgersi. Il dramma è che tra l’inizio della malattia e la diagnosi passa spesso molto tempo, troppo, addirittura 5 o 10 anni e questo è un tempo di sofferenza fisica ed emotiva oltre che di costi per tutta la società». Secondo lo studio del 2015 «Il costo sociale del dolore cronico in Italia» pubblicato, tra gli altri, dall’Università di Parma, i costi causati dal dolore cronico, seppur ancora sottostimati, sono enormi poiché si compongono di varie voci: giornate lavorative perse, prepensionamenti, farmaci, terapie, indagini, ricoveri e visite mediche. Inoltre, vi sono ricadute su tutto il contesto familiare di una persona afflitta da dolore cronico invalidante: divorzi, disagi per i figli, depressioni reattive. «La grande sfida, oggi, è avere una diagnosi nel più breve tempo possibile e garantire una presa a carico corretta» chiarisce Pellanda. «Noi siamo in contatto anche con la SUPSI per cercare di sviluppare percorsi per gli specialisti. Nelle università il dolore cronico non è ancora affrontato in modo ottimale e spesso gli stessi medici si trovano disarmati di fronte a nevralgie, fibromialgia, vulvodinia o altre forme di dolore cronico. Il nostro obiettivo è contribuire ad un cambio di mentalità: è in corso una battaglia a livello mondiale per studiare il dolore cronico, capire cosa è, come trattarlo e come prenderlo in carico. È fondamentale che i medici si prendano il tempo di ascoltare i pazienti, che questi ultimi conoscano i loro diritti e si attivino per sviluppare capacità per facilitare il loro inserimento in professioni adatte alla loro situazione e che i datori di lavoro si dimostrino aperti nel comprendere i bisogni di una persona che sta attraversando queste difficoltà. La nostra società tende a volerci tutti belli, sani al 100%, performanti e sempre reattivi, altrimenti ci scarta. Ma il mondo così non può funzionare» prosegue la presidente di Filo di Speranza che conclude spronando la società tutta con un invito: «Se ognuno di noi aiutasse chi sta male, il dolore cronico sarebbe meglio sopportato dal singolo e meglio accettato a tutti i livelli. Non serve chiedere ad una persona come sta. Per questo tipo di malattia ci vuole tempo, non si guarisce in pochi giorni e neppure in pochi mesi, ma ci vogliono anni. Importante è dire ‘se hai bisogno io ci sono’. Stare meglio è possibile, si può trovare una nuova normalità anche con il dolore e migliorare moltissimo la qualità di vita. Io ne sono la prova vivente. Non si è soli. E tutti, se correttamente aiutati e supportati, possono guarire o quantomeno raggiungere buoni risultati e tornare a sorridere».

Il dolore, questo (s)conosciuto

«C’è un aspetto affascinante del dolore. Esso è una condizione fondamentale dell’uomo che nasce da un’anomalia nei rapporti interni od esterni ed è un grande alleato perché ci impedisce di andare incontro ad un qualcosa che ci può fare male, come una piastra rovente o una spina sotto ad un piede. La stessa cosa vale anche per un dolore interno. Ad esempio, un organo che non funziona bene ed ha uno stato infiammatorio è connotato dalla presenza di dolore. Il dolore ci avvisa quindi che qualcosa non va, come un sistema di allarme che viene attivato. Il problema del dolore cronico è proprio questo: il sistema d’allarme non funziona più correttamente poiché si è installato uno stimolo continuo che va per conto suo ed è sempre attivo provocando le stesse percezioni di dolore anche quando la sollecitazione periferica non c’è più» spiega la dottoressa Caterina Podella Turano, neurologa e responsabile clinico del Centro Cefalee Lugano. E proprio qui troviamo il nocciolo della questione. Un meccanismo, nato come una forma di difesa, tanto potente ed efficace quando funziona perfettamente, diventa estremamente invalidante e ostico da trattare quando si inceppa. Continua la dottoressa. «Ciò che affascina e può avere addirittura dei risvolti esistenziali, antropologici, filosofici, etici è come porsi davanti al dolore che da alleato diventa nemico. Un dolore che, in qualche modo, è impazzito perché è impazzita la centrale di controllo. E da qui parte la presa in carico del paziente e derivano i comportamenti clinici: farmaci per ‘silenziare’ questo sistema di allarme, utilizzo di tecniche integrative per ‘distrarre’ i circuiti che lavorano troppo, sforzo per ridurre le emozioni della rabbia e della paura, sviluppo delle frequenze cerebrali del rilassamento. Insomma, abbiamo le possibilità per affrontare questo dolore conoscendolo meglio sia tramite la ricerca medica e le neuroscienze, sia inquadrandolo in un ambito più ampio e quindi lavorare sul comportamento del paziente, sull’accettazione del dolore, ma soprattutto sulla consapevolezza. Bisogna fare, infatti, un percorso con la persona. Il dolore non è un nemico tout court, ma è la spia che qualcosa non funziona perché in un qualche modo, in un qualche momento, un sistema così bello, così fisiologicamente perfetto e così straordinariamente utile si è interrotto. Non bisogna colpevolizzare né se stessi né il dolore».

Dott.ssa Caterina Podella Turano, neurologa e responsabile clinico del Centro Cefalee Lugano. ©Ti-press/Samuel Golay
Dott.ssa Caterina Podella Turano, neurologa e responsabile clinico del Centro Cefalee Lugano. ©Ti-press/Samuel Golay

Il percorso terapeutico

L’approccio passa quindi dalla presa in carico, dal giusto tempo da dedicare al paziente, dall’ascolto. È indispensabile far comprendere a chi soffre la necessità di intraprendere un percorso terapeutico. «Il medico deve essere in grado di accogliere gli aspetti che vanno approfonditi e discussi nell’ambito di questa presa di consapevolezza da parte del paziente. Ciò non deve, però, tramutarsi in un rapporto di psicoterapia poiché il neurologo che cura il dolore deve avere sempre presente il concetto di ‘hic et nunc’ cioè il ‘qui e ora’. Questo perché deve mantenere le fila con la consapevolezza del paziente, con la farmacoterapia, con gli operatori ai quali ha chiesto di intervenire nella presa a carico della patologia (n.d.r. fisioterapisti, agopuntori, osteopati, ...). Tale approccio è necessario per garantire un circolo di qualità che porti verso la guarigione» chiarisce la neurologa. Chi sta male, spesso da molto tempo, ripone nel medico tante aspettative e ha, comprensibilmente, fretta di stare meglio, ma deve sapere che il percorso è lungo e difficile. Prosegue la dottoressa: «Quando parliamo di dolore cronico dobbiamo tener presente che non siamo davanti ad una gestione per così dire ‘facile’. Non stiamo parlando di un intervento chirurgico che, una volta eseguito, presenta solitamente una strada in discesa. Nel dolore cronico la strada, anche durante il percorso terapeutico, spesso è in salita e l’impazienza del paziente può sommarsi all’impazienza del medico. La presa a carico della patologia in un team multidisciplinare permette di spezzare le aspettative, segmentando il rapporto univoco medico-paziente su più operatori, ognuno che si fa carico, in modo coordinato, di un pezzetto di strada da percorrere assieme a chi sta male. Questa è la strada corretta per affrontare il dolore cronico. Il medico deve essere sempre il garante nei confronti del paziente in modo tale che vengano usate le tecniche e le terapie più adatte al suo caso e basate sull’evidenza scientifica».

Educare il medico al limite

Il dolore cronico è una sfida non solo per chi ne soffre, ma anche per chi lo cura. Anche i medici possono avvertire la frustrazione di non riuscire a far star meglio un paziente. «Noi medici siamo stati educati ad essere capaci di raggiungere gli obiettivi di cura, grazie anche agli strumenti sofisticati di cui disponiamo e facciamo fatica ad accettare l’insuccesso, il limite» spiega con grande onestà la dottoressa Podella, «godiamo tantissimo nell’ottenimento dei risultati e soffriamo moltissimo nello sperimentare un fallimento. Questo può portare a reazioni inadeguate. Un medico frustrato non ama il dialogo con un paziente ‘difficile’ e si arriva ad un deterioramento del rapporto medico-paziente quando il dottore si rende conto di non riuscire a fare star meglio il paziente. Si entra allora in un circolo vizioso ormai, purtroppo, conosciuto: il paziente arriva pieno di aspettative; il medico aggiunge le sue, si cerca la soluzione in perfetta coscienza e scienza, ma non si arriva subito e magari nemmeno dopo tre mesi a qualche risultato buono. Il paziente allora si demotiva, il medico si frustra e il paziente cerca un altro specialista. Il dottore, quando sente la frustrazione, può avere la tentazione di ‘scaricare’ a qualche collega il paziente e questo è terribile perché consolida l’insoddisfazione dei due protagonisti, ma soprattutto aggrava la condizione di chi soffre poiché al problema clinico si aggiunge la rabbia, la paura del futuro, l’incapacità di avere fiducia nell’autoguarigione, la mancanza di speranza di trovare il professionista giusto». Ma come uscire da questa spirale di negatività chiediamo alla nostra interlocutrice: «I medici vanno educati al limite della condizione umana e al senso di impotenza. La strada non è mai bianca o nera. Bisogna educare all’ascolto. Superare l’impasse dove il medico dice ‘io non sono capace’ e il paziente ritrova la sua disperazione è possibile puntando non solo sui farmaci e non solo sulla propria scienza. La cosa più importante è il paziente e la sua autoguarigione. Quindi il medico deve saper catturare la capacità e la volontà del paziente di ‘volerne uscire’. Deve affrontare insieme a lui le difficoltà, la salita, la pazienza che ci vuole. Il medico deve rinunciare un po’ alla sua ‘hybris’, cioè alla tracotanza con cui affronta la malattia, e il paziente deve rinunciare un po’ alla sua condizione di chi nel dolore vuole rimanere per raccogliere gli spiccioli dei benefici secondari e cioè, ad esempio, al fatto di pretendere la comprensione di tutti. Il mondo del dolore cronico è estremamente complesso. Non si può pensare che si arriva su di un paziente e si risolvono i problemi dall’esterno. È un percorso da fare assieme. Oltre a ciò si sommano problematiche di carattere burocratico ed economico - il tariffario e la media del tempo che andrebbe dedicato ai pazienti per la fatturazione secondo quest’ultimo-ed ecco che la lotta per andare verso un maggior benessere per tutti diventa veramente epocale».

lI cambio di prospettiva e il futuro

La strada della ricerca non è lunga, ma è complessa. Secondo Caterina Podella nel prossimo decennio si potrebbe arrivare alla targhettizzazione dei punti dove si può agire sia con le tecniche integrative che con i farmaci per lavorare sul dolore cronico e porta un esempio: «Nella cura delle cefalee stiamo da pochi anni lavorando con anticorpi monoclonali che vanno a colpire selettivamente una sostanza che si chiama CGRP. Questa sostanza è liberata durante l’attacco di emicrania e l’anticorpo lavora unicamente su di essa togliendo il dolore. Grazie a questi ritrovati siamo riusciti a portare pazienti, che prima avevano 25 giorni di dolore al mese, a sperimentare episodi di emicrania per 2/3 giorni al mese. Questo cambia letteralmente la vita. Tale risultato è stato possibile grazie alla capacità di una sostanza di neutralizzare un preciso obiettivo. La ricerca si orienta quindi su questa strada, avendo però la consapevolezza che il farmaco è una sola delle componenti, per quanto importante, del percorso terapeutico». 

La conferenza

Per tutti coloro che desiderano saperne di più, l'Associazione Filo di Speranza organizza sabato 22 ottobre 2022 a Paradiso c/o la Sala Multiuso (di fronte al Municipio) il secondo convegno sul dolore cronico. Entrata libera a tutti gli interessati. Orari e programma verranno pubblicati sul sito filodisperanza.blogspot.com/p/news.html.