Reportage

Una giornata vissuta in Pronto Soccorso

Immersione nel caos organizzato dove nulla si improvvisa, affiancando medici e infermieri, ci ha permesso di scoprire una struttura complessa, predisposta per affrontare problemi e trovare soluzioni.
Martina Ravioli
18.08.2022 17:30

Ospedale Civico, Lugano, in un afoso primo pomeriggio di fine luglio. Indossato il camice bianco e apposto il badge identificativo entriamo anche noi a far parte, almeno per un po’, dei V.I.P: Very Important Person. Perché sì, chi lavora qui è davvero una «persona molto importante». Che sia l’infermiere che accoglie chi sta male e si occupa del triage, che sia il medico che diagnostica la frattura di una vertebra, fino ad arrivare al collaboratore che si occupa minuziosamente della pulizia e della sanificazione degli spazi ospedalieri, ognuno è fondamentale per permettere alle porte del Pronto Soccorso di aprirsi per tutti coloro che ne hanno bisogno. E i casi di certo non mancano dal momento che il PS dell’Ospedale Regionale di Lugano, considerando le due sedi del Civico e dell’Italiano, accoglie mediamente 35.000 pazienti l’anno. Numeri impressionanti e in crescita. «Abbiamo statistiche aggiornate ogni 30 minuti di tutti i PS della rete EOC», mi spiega infatti la Dr.ssa med. Laura Uccella, Caposervizio, mentre mi mostra sul monitor i dati, «notiamo un aumento generalizzato di accessi al PS. Le cause non sono ancora chiare, ma abbiamo alcune ipotesi. Il fatto che le persone siano tornate a muoversi maggiormente, porta a più probabilità di eventi traumatici - cadute, contusioni, incidenti- poi vi è anche un aspetto relativo agli orari. Essendo a disposizione 24 ore su 24 in alcune sedi come qui al Civico, le persone sanno che possono sempre fare affidamento su di noi e vengono in Pronto Soccorso quando il loro medico non è in servizio. Questo, però, spiega solo in parte il fenomeno. Sicuramente nel prossimo futuro potrà essere utile una riflessione in merito e magari anche ripensare la medicina di prossimità». I numeri, inoltre, dicono tanto, ma non tutto. Dietro ad ogni cifra si nasconde una storia e nelle poche ore di permanenza tra queste mura abbiamo avuto un assaggio di cosa significhi confrontarsi con il dolore altrui. E non è sempre facile.

Attraverso le porte

Le ante opache separano la sala d’aspetto dagli altri spazi del PS, ma non limitano l’accesso alle cure. La presa in carico, infatti, parte dal momento dell’accoglienza e del triage, cioè l’attribuzione della priorità d’accesso secondo l’urgenza. E qui mi rendo conto della fluidità di tutti i processi e della perfetta sinergia tra le persone. Ognuno sa cosa deve fare, come e quando farlo. Io osservo, domando, ma soprattutto ascolto e imparo. Scopro così che gli infermieri hanno un ruolo fondamentale. Se il medico è il protagonista del processo diagnostico, l’infermiere è formato per essere il protagonista del processo terapeutico ed è lui o lei, ad esempio, che si occupa del triage. «La collaborazione di tutta l’equipe, medica e infermieristica, è fondamentale. L’attività in urgenza funziona solamente se c’è una stretta sinergia e il lavoro dell’uno è possibile solo grazie al lavoro dell’altro» mi spiega la Dr.ssa med. Roberta Petrino, Primario, che continua: «questo ci consente una presa a carico il più rapida possibile secondo i criteri d’urgenza. Nell’ultimo anno l’attività in PS è molto cambiata poiché è stato istituito un percorso di specializzazione per la medicina d’urgenza. Medico e infermiere d’urgenza non ci si improvvisa, ma serve una formazione specifica che ci permetta di intervenire su ogni persona nel minor tempo possibile e nel modo più appropriato. Il nostro compito è fare una prima diagnosi e stabilizzare il paziente. Alcuni casi, le classiche bagatelle, vengono poi completamente risolte in PS. Ad esempio, l’apposizione di punti nel caso di un piccolo taglio avviene in uno dei 2 box che abbiamo subito dopo l’entrata, appositamente separati dalle restanti sale. Per i casi che richiedono un ricovero o ulteriori approfondimenti, invece, il paziente, dopo essere stato stabilizzato e posta la prima ipotesi diagnostica, viene indirizzato verso il reparto più appropriato per la presa in carico. La permanenza in PS è molto variabile. Si può andare dai 30 minuti ad oltre 6 ore, ma direi che un tempo medio potrebbe essere quello di 3-4 ore». Mentre parliamo viene confermato il sospetto che aleggiava già nella mente della turista finlandese in cura in uno dei 2 box: rottura del malleolo... i suoi programmi di continuare la vacanza in Ticino e proseguire in Svizzera interna la prossima settimana, con tanto di risalita sulla Jungfraujoch, dovranno essere rivisti. E per fortuna che esiste l’inglese per comunicare, ma in caso di necessità il servizio di interpretariato è a disposizione anche se, mi spiega Matias Ormazabal, Capo-reparto infermieristico «l’EOC impiega collaboratori che hanno un background internazionale e parlano quindi diverse lingue. Spesso è sufficiente una telefonata ad un collega, per trovare la persona giusta per dialogare con il paziente».

Il lato umano è parte integrante della cura. ©CdT/Putzu
Il lato umano è parte integrante della cura. ©CdT/Putzu

Comunicare è fondamentale

Essere sicuri di aver capito bene. Evitare fraintendimenti. Riuscire a spiegare a chi sta male le procedure in atto ed aiutarlo così dal punto di vista psicologico a calmare la paura e il nervoso. In PS la comunicazione viene curata tanto quanto il male, dal momento che ogni incomprensione può risultare fatale o, se non altro, generare ansia e confusione. Un esempio sono i codici attribuiti alle urgenze che, curiosamente, seguono due scale diverse tra PS e ambulanza. In Pronto Soccorso il paziente più grave viene identificato come «SETS 1» dove SETS sta per «Swiss Emergency Triage Scale» per poi scalare fino al 4 per i casi meno urgenti. In ambulanza, invece, si attribuisce un codice NACA, «National Advisory Committee for Aeronautics». In questo caso l’1 è il meno grave, per poi aumentare di gravità. Se l’ambulanza trasportasse un paziente con codice NACA5, questo corrisponderà ad un SETS 1, ma può comunque variare di caso in caso. Per questo è fondamentale che tutte le procedure siano standardizzate, gli strumenti pronti e che ognuno conosca ruoli e compiti. Suona il telefono: sta arrivando la REGA con un NACA 4.

I momenti di confronto non mancano. Sopra la Dott.ssa Petrino, Primario. ©CdT/Putzu
I momenti di confronto non mancano. Sopra la Dott.ssa Petrino, Primario. ©CdT/Putzu

Da 0 a 100 in pochi secondi

C’è il tempo di prepararsi, ma non sempre è così. Il PS è un posto strano. Tutti aspettano: pazienti e personale. Gli uni una cura e gli altri l’imprevisto e quando l’imprevisto arriva bisogna essere pronti ad agire. Per questo motivo le risorse in termini di professionisti, di spazi e di strumenti sono tarate sulla massima occupazione possibile e, sempre per questo motivo, non tutti i box e non tutte le persone vengono contemporaneamente occupati. Non sono spazi «vuoti» o persone «inattive». Sono risorse pronte a passare da 0 a 100 in una manciata di secondi. Pronte a salvare una vita come altrimenti non avrebbero potuto fare se impiegate a curare una bagatella minore che, invece, può aspettare qualche minuto in più in sala d’attesa. Ma il tempo non è mai perso. «L’attesa è attiva» mi conferma Marco Ballinari, Vice- capo reparto infermieristico: «anche se una persona non ha ancora varcato la porta a vetri la presa in carico è cominciata. Magari abbiamo somministrato un analgesico, oppure fatto un prelievo di sangue per anticipare i risultati di un’analisi. A volte si ha la convinzione che se non si è stati visti da un medico significa che non si è stati presi sul serio. Non è così. Lavorando in sinergia, medici e infermieri, possiamo talvolta iniziare il percorso diagnostico-terapeutico ancora prima della visita». Ecco, tra pochi minuti atterrerà l’elicottero della REGA. Sappiamo che è una donna, è cosciente, è caduta in casa, si sospetta una frattura delle vertebre, avverte formicolii. Il team si riunisce in sala REA, dall’inglese «reanimation», per il briefing. Il team leader infermieristico indossa una casacca gialla, quello medico una casacca arancione. Vengono ricapitolate le informazioni, ipotizzato lo scenario più probabile ed eventuali peggioramenti possibili, decisi i ruoli. Alla fine, ognuno ripete i propri compiti per evitare fraintendimenti. Appunto: la comunicazione è fondamentale.

Anche nelle situazioni più critiche l’obiettivo è mantenere la calma. ©CdT/Putzu
Anche nelle situazioni più critiche l’obiettivo è mantenere la calma. ©CdT/Putzu

Tempo d’azione? 12 minuti

Atterra l’elicottero. La barella arriva in sala REA e la donna viene spostata sul lettino. I soccorritori riassumono velocemente le informazioni in loro possesso e ripartono, pronti per una prossima chiamata. La donna non ha perso i sensi e riesce, con difficoltà, a rispondere alle domande. Inizia il protocollo ABCDE. Si tratta di una check-list salvavita che si concentra sulle vie aeree, la respirazione, la circolazione, i problemi neurologici e l’esposizione del paziente. I due team leader dettano i tempi, supervisionano, mantengono la calma, ricapitolano il protocollo se necessario e non perdono mai di vista il quadro generale. Gli altri componenti del team si concentrano ognuno sul proprio compito: chi inserisce un secondo accesso venoso, chi attacca la flebo con gli antidolorifici, chi preleva i campioni di sangue, chi fa l’ecografia per verificare versamenti di liquidi nell’addome ed eventuali emorragie interne. Tutti si muovono in modo coordinato. Sembrano tante braccia con un’unica mente: merito della preparazione e della sinergia, ma anche dell’affiatamento del team. La diagnosi concorda con quanto sostenuto dalla REGA: frattura di una o più vertebre. Si decide per una TAC. In neanche 12 minuti dall’arrivo in sala REA sono state fatte tutte queste operazioni e ora la paziente sta facendo l’esame strumentale. Sì, ha rotto una vertebra. Viene chiamato il neurochirurgo. Visiterà la donna e deciderà come procedere e in che reparto ricoverarla. Il lavoro del PS, per questo caso, è terminato con successo, ma ecco che suona il telefono... è in arrivo la croce verde con un uomo con forti dolori addominali.

A seconda della diagnosi, i pazienti tornano a casa o vengono ricoverati. ©CdT/Putzu
A seconda della diagnosi, i pazienti tornano a casa o vengono ricoverati. ©CdT/Putzu

Mantenere la calma

In televisione siamo abituati a scene di sangue ovunque, medici e infermieri che corrono come matti e urlano come forsennati, ma qui non è così. «L’obiettivo è mantenere un ‘caos controllato’. Lo definisco caos perché effettivamente non sappiamo mai cosa può succedere da un momento all’altro, ma se riusciamo a controllare le nostre azioni, ad anticipare i tempi quando e se possibile, a seguire i protocolli, ecco che quelle scene restano solo nei telefilm» sorride Ormazabal che dirige oltre 50 infermieri che lavorano sia al Pronto Soccorso del Civico che dell’Italiano e anche la dottoressa Petrino, a capo della struttura e di oltre 30 medici, annuisce. E mentre parliamo le orecchie di tutti loro sono sempre tese a captare i segnali acustici dei monitor disseminati in corridoio e che segnalano i parametri dei pazienti e ogni tanto l’occhio scappa a fissare il grande schermo che mostra chi c’è nelle varie salette, per quale patologia, a quali esami è stato o sarà sottoposto, chi è ancora in sala d’attesa: insomma avere uno sguardo sempre attento a tutto è davvero deformazione professionale. «A volte la situazione è critica e può rischiare di sfuggire di mano. Chiunque può andare nel pallone perché nel nostro lavoro si naviga a vista. Abbiamo pochissimo tempo per intervenire, soprattutto in alcuni casi come l’ictus o l’infarto, ma è un lavoro meraviglioso e il ‘grazie’ delle persone, quando riusciamo a farle stare meglio, ripaga di tanta fatica e anche di alcune giornate storte quando magari non siamo riusciti ad alleviare i dolori di tutti in breve tempo. Noi facciamo del nostro meglio, ma la dinamica del PS è estremamente complessa e non tutto è sotto il nostro controllo» conclude Ormazabal. Eh già, non fatico ad immaginarlo. Non ho assistito ad episodi spiacevoli, ma me ne vengono raccontati alcuni e talvolta mantenere la calma, anche davanti all’arroganza, non deve essere facile. La maggioranza delle persone, però, è contenta del servizio offerto, anche secondo i risultati dei sondaggi che mi mostra la dottoressa Uccella: «I pazienti si sentono trattati con rispetto e attenzione e questo è fondamentale».

Affrontare la morte e la vita

Mentirei se mi mostrassi dispiaciuta di non aver assistito ad una presa in carico conclusa con un decesso. Sono ben contenta di «averla scampata», ma in PS succede. I miei interlocutori mi spiegano che mentre si interviene su un paziente c’è adrenalina, si è concentrati, si dà il massimo, ma dopo ci si accascia e spesso servono momenti di confronto per elaborare l’accaduto. Anche dare cattive notizie ai parenti è difficile, come pure gestire i ricoveri coatti, i tentativi di suicidio, chi viene portato qui per effetti di alcol e droga. Ma cosa dà l’energia per continuare? «Si tratta di un mestiere in continua evoluzione. È un lavoro dinamico, ogni giorno è diverso dal precedente» rispondono sia Ballinari che Mara Catena, infermiera specializzata in Cure Urgenti e che in PS si occupa anche di ricerca per migliorare le linee guida e i flussi di presa in carico. Continua Catena: «La condivisione dei momenti crea squadra. Viviamo assieme episodi molto forti e ci supportiamo a vicenda. Fare l’infermiere, soprattutto in PS, è molto più di quanto ci si aspetta, ma non è facile bilanciare lavoro e famiglia. E poi» sorride, «Secondo il mio contapassi arrivo a fare anche 14 km per turno». È una bella metafora questa del cammino. Le cure urgenti hanno fatto tanta strada per sconfiggere la morte e dare speranza là dove pochi anni fa non sarebbe stato possibile. E sia la morte che la vita non sono semplici da affrontare dentro ad un camice, quando non sai mai cosa sta per succedere, con ogni passo che può portarti a cadere trascinando con te chi è affidato alle tue cure. Ma l’obiettivo è sempre attraversare la palude di insidie e affidare agli altri reparti un paziente stabilizzato e con una prima diagnosi.

Si va da casi molto gravi, tali da mettere in pericolo la vita, alle classiche "bagatelle". ©CdT/Putzu
Si va da casi molto gravi, tali da mettere in pericolo la vita, alle classiche "bagatelle". ©CdT/Putzu

Alla base di tutto

Mentre inseguo medici e infermieri continuo a spostarmi per far passare chi sta lavorando, tra cui anche Stefania Sorella, responsabile Servizio Economia domestica. Dirige 85 persone tra Civico e Italiano e mi spiega che anche per le pulizie esistono rigidi protocolli per la sicurezza di pazienti e collaboratori. «I rifiuti infetti sono tracciati fino al centro di smistamento di Giubiasco. Vi è una separazione chiara nel nostro lavoro e lo si vede anche nei carrelli che sono strutturati per avere da una parte il materiale pulito e dall’altra lo sporco». Ecco, ci siamo. Gli orologi appesi ovunque mi ricordano che è ora di lasciare il camice e attraversare, all’incontrario, la porta. Come starà la turista finlandese infortunata in vacanza? E la signora con la vertebra rotta arrivata con la REGA? E l’uomo con i punti sulla mano? Frammenti di vita che qui passano, storie che si intrecciano per qualche ora e che poi, inevitabilmente, seguono destini diversi. Qui rimangono, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno, medici, infermieri e collaboratori come Mara, Marco, Matias, Laura, Roberta e Stefania. Tante persone, tante professionalità, una sola squadra. 

«Secondo il mio contapassi arrivo a fare anche 14 km per turno». È una bella metafora questa del cammino. Le cure urgenti hanno fatto tanta strada per sconfiggere la morte e dare speranza là dove pochi anni fa non sarebbe stato possibile

Il Servizio EOC di Medicina d’Urgenza: cure mirate al servizio del cittadino

(di Michele Castiglioni)

Il Pronto Soccorso non è solo un luogo dove recarsi in caso di urgenza, ma anche un concetto strutturato, nella forma del Servizio EOC di Medicina d’Urgenza, con lo scopo di rispondere in modo adeguato alle esigenze della popolazione. Abbiamo avuto modo di parlarne con il Dr. Fadini, Caposervizio presso l’Ospedale Regionale di Mendrisio a proposito dell’evoluzione del concetto di Pronto Soccorso e di servizio di prossimità sul territorio ticinese per l’Ente ospedaliero Cantonale.

Dottor Fadini, qual è il concetto sul quale si basa l’attuale rete di Pronto Soccorso in Ticino?
«Diciamo che il concetto di Pronto Soccorso ‘diffuso’ (sul territorio) parte dall’idea di sistema ospedaliero ‘multisito’. Questo perché dobbiamo essere in grado di concentrare i pazienti che mostrano una particolare patologia in centri specializzati, per ottimizzare la presa a carico. Per fare un esempio: in caso di ictus, è bene che la persona interessata venga ricoverata al Neurocentro di Lugano dove è stata creata una ‘stroke unit’ e il personale è specializzato in quel tipo di intervento. Per ottenere questo abbiamo due vie da seguire: informare la popolazione che in caso di ictus deve recarsi a Lugano, oppure creare delle ‘porte d’entrata’ distribuite sul territorio che permettano un accesso facilitato per i pazienti i quali poi vengono - a seguito di una valutazione medica - reindirizzati nei centri di competenza specifica».

Queste «porte d’entrata» sono quindi i servizi di Pronto Soccorso?
«Esatto. Anche i PS più piccoli permettono l’accesso all’intera rete di servizi e svolgono una prima diagnosi che consente l’eventuale reindirizzamento».

Quali sono i principali vantaggi per i pazienti?
«Il paziente vive una presa a carico standardizzata con una condivisione dei risultati del processo diagnostico con l’esperto (che può essere in un’altra località), il quale ha accesso a tutta la documentazione (anamnesi, terapie, etc.) e può esprimersi in merito a quale sia il percorso migliore e il luogo (ospedaliero) migliore per compierlo».

Quindi non è che il paziente viene per forza «smistato» da qualche parte…
«Assolutamente no: in questo modo i medici specialisti possono reindirizzare una persona verso un altro centro se lo ritengono necessario, oppure tenerlo nella struttura di arrivo se reputano che il malanno sia curabile al meglio anche in loco (evitando uno spostamento inutile). In questo modo i pazienti ottengono sempre le cure migliori e più adatte al loro specifico caso.