Il commento

Abusi sessuali nella Chiesa, nel nome della verità e della trasparenza

Quella emersa dal rapporto dell'Università di Zurigo è la solita punta dell'iceberg
Giuseppe Zois
17.09.2023 06:00

Tutto un sentire racchiuso in quattro verbi: «Ci spaventa, ci sconcerta, ci rattrista e ci sfida». Sono quelli pronunciati dall’amministratore apostolico della Diocesi di Lugano, Alain De Raemy a commento del Rapporto sugli abusi sessuali del clero. Un esame del passato e uno sguardo sul futuro. L’onestà dell’ammissione di errori e il coraggio di un cambio di passo che comunque era già cominciato. Sempre De Raemy ha usato l’ossimoro del «silenzio assordante dietro i numeri delle vittime… Gli abusatori agiscono come dei lupi e non c’è peggior tradimento».

Chissà con quale animo stanno vivendo e seguendo i notiziari di questi giorni le vittime di abusi sessuali, ai tempi minorenni. Sono 1002 i casi riscontrati in Svizzera da metà Novecento a oggi. Bisognerebbe provare a mettersi nei panni di chi ha subito e vissuto il dramma, portando a vita uno sfregio alla sua dignità, al rispetto che gli era dovuto e con una ferita che non si rimargina mai… Il paradosso di uomini marchiati da persone consacrate a Dio e che hanno sospeso il Vangelo (vedere alla voce «scandalo», dov’è usato un linguaggio inequivocabile). Siamo alla denuncia del cardinale Ratzinger nella epocale Via Crucis del 2005, alla vigilia di essere eletto Papa: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!».

È pur vero che prima era soffiato il vento innovatore e purificatore del Concilio, chiuso da Paolo VI l’8 dicembre 1965. Ma sono dovuti passare 45 anni prima che Benedetto XVI scoperchiasse con forza il fetido calderone della pedomania di cui s’è macchiato per secoli il clero, dove anche un solo caso è imperdonabile. Nei suoi viaggi il Papa tedesco incontrò molte vittime di quella «grandissima colpa» trascurata o non affrontata «con la necessaria decisione e responsabilità, come troppo spesso è accaduto e accade» ed esprimendo senza perifrasi «nei confronti di tutte le vittime di abusi sessuali la mia profonda vergogna, il mio grande dolore e la mia sincera domanda di perdono», perché ogni caso di abuso sessuale «è terribile e irreparabile». Non c’è come «guardare negli occhi» per leggere e capire lo squarcio interiore di chi è stato violentato e spesso costretto sotto minaccia al silenzio.

Con le norme da lui introdotte (21 maggio 2010), Benedetto XVI ha dato avvio al nuovo corso della «tolleranza zero» unita al severo monito sul dovere di trasparenza, dopo aver misurato egli stesso «l’abisso di silenzio» e il «nascondimento di Dio».

Troppo pochi i processati e condannati e troppo piccola, di sicuro, la solita punta dell’iceberg, emersa dal Rapporto di Zurigo. È cambiato il clima, si riconosce e la svolta concreta l’ha impressa Benedetto XVI, con continuità accentuata da Papa Francesco. Dopo questa settimana di focus a tutto campo sugli abusi del clero, occorre pur sempre distinguere però tra chi commette un abuso che nessuna sentenza di condanna riuscirà a cancellare nelle vittime e chi dopo qualche decennio è accusato di aver eliminato documenti che oggi sarebbero preziosi e importanti per ripercorrere vicende, protagonisti e vittime. Molti i fattori cambiati sotto la spinta della modernità, da una più spiccata sensibilità a una formazione più solida e anche a marcature e maglie socioculturali più strette.

Ho lavorato nel quotidiano che era della Curia con 5 dei 7 vescovi che si sono succeduti sulla cattedra di San Lorenzo a Lugano: di questi, 4 sono defunti. Il Rapporto fa il nome di due - Eugenio Corecco e Giuseppe Torti - uno morto nel 1995 e l’altro nel 2005. Personalità diverse, ciascuno con il suo DNA spirituale e la sua idea di autorità, frutto anche dell’educazione avuta in seminario e del peso non indifferente del Codice canonico rispetto a quello civile. Ho conosciuto un vescovo che ha voluto eliminare personalmente nella stufa della sua casa di Valle i documenti (molti?, tutti? quali?) del suo episcopato. Può aver influito - chi è in grado di stabilirlo? - anche un eccesso di considerazione o di zelo per il rispetto ritenuto doveroso delle persone che avevano avuto riscontri con lui e quindi, ai suoi occhi, per la privacy da salvaguardare. Un successore, Pier Giacomo Grampa, 30 anni dopo, a precisa domanda confluita in un libro-intervista, mi assicurava - mentre era ancora in carica - la volontà di conservare tutto, ancor più oggi in un tempo con poco spazio per la memoria. È lo stesso che, prima di averne notizia dal Rapporto, mi informò dell’esistenza di un archivio segreto del vescovo, in cui non volle mai metter mano, affidando la chiave al suo vicario generale. Ancora a Grampa si deve il varo della prima Commissione della Diocesi proprio per casi di abusi sessuali del clero su minori. Di certo c’è anche in ogni modo che tutti i vescovi del post-Concilio - editori del «Giornale del Popolo» - hanno avuto una linea editoriale di fermezza piena ed esplicitata contro gli abusi sessuali.

Qualcuno ha detto che nei molti gravi crimini di cui gronda ogni giorno la cronaca c’è la prova, purtroppo, che la voce di Dio non ha ancora attraversato tutto il deserto degli uomini: è innegabile comunque che il clima è cambiato, la consapevolezza è cresciuta, l’aria è diversa. Le uscite dei vescovi di San Gallo («Ho sbagliato» in relazione a due casi) e di Sion (si dimetterà se dovessero essere ravvisate sue colpe) e l’autosospensione dall’incarico dell’abate di St. Maurice stanno a comprovarlo. Un segno chiaro che con la pubblicazione del Rapporto di Zurigo la voce si è fatta sentire alta e forte in Svizzera. E dopo le pagine aperte in questa passata settimana, serve ora scriverne di nuove. Più in linea con la coscienza.

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