Isole comprese

Atteriamo a Sana'a di sera...

Sono donna in un Paese musulmano e me l’ero dimenticato
Prisca Dindo
21.08.2022 07:00

Atterriamo a Sana’a che è sera. Siamo nel 1994. La guerra che da sette anni dilania lo Yemen è lontana.  L’aria è fresca: la capitale del Paese è situata a 2000 metri d’altezza. I lampioni lungo il percorso che ci conduce in albergo si contano sulle dita della mano. È buio pesto in città. Nella hall non troviamo nessuno, sembra un albergo fantasma. È solo un’apparenza: sotto il bancone della reception scorgo tre uomini seduti per terra.  Hanno gli occhi arrossati e una delle due guance è gonfia come una palla di tennis.

Sembrano intontiti. Malgrado ciò ci consegnano le chiavi delle nostre stanze. A me non degnano di uno sguardo. Sono donna in un Paese musulmano e me l’ero dimenticato. Prima di addormentarmi, sfoglio la guida e scopro che masticare foglie di qat, una diffusissima droga leggera, è lo sport nazionale tra gli yemeniti di sesso maschile. Ecco che c’era nelle  guance dei tre uomini della reception.

È al nostro risveglio che capiamo il motivo per il quale Pier Paolo Pasolini aveva definito lo Yemen il più bel Paese del mondo.

Negli anni ‘70 il grande regista italiano girò a Sana’a alcune scene del film “Il Decameron” e parte di “Il fiore delle Mille e una notte”. Terminate le riprese, l’intellettuale italiano lanciò un appello all’UNESCO affinché intervenisse per proteggere la bellezza della città.  Si era innamorato di  Sana’a: per lui era una Venezia di sabbia. Non esagerava.  

Entrare in città vecchia è fiabesco. Le facciate color ocra delle case in fango essiccato alte fino a cinque piani sono decorate con forme geometriche di un bianco accecante e impreziosite con vetri colorati. Tra una casa a torre e l’altra, giardini con palme e melograni. Un sogno ad occhi aperti.

Ci infiliamo nel labirinto del suq. È il mercato più antico della penisola arabica ed è tutto un brulichio di attività. I profumi del caffè, della mirra e dell’incenso, che usano per profumare gli abiti, sono inebrianti. Nei daawo, tipici forni dalla forma circolare, cuoce il lahoh, un pane che ha un sapore leggermente amaro.

Tra una banco e l’altro, incrociamo file di asini che trasportano le merci e dromedari che girano in tondo all’infinito per mettere in moto i frantoi per la produzione dell'olio di sesamo.

Le donne portano un velo nero lungo fino ai piedi che lascia liberi solo gli occhi mentre gli uomini indossano il turbante e un lungo camicione bianco stretto ai fianchi da una cintura con la jambiya. È un pugnale dalla lama ricurva, simbolo di virilità e identità insieme ai kalashnikov, che scorgiamo con inquietudine un po’ ovunque.

Viaggiare nello Yemen è come percorrere all’indietro un cammino nel tempo. Salvo le auto e le mitraglie tutto sembra essersi fermato nel Medioevo.

In un mese ci lasciamo incantare dalle meraviglie di questo Paese.

I grattacieli di argilla di Shibam, la Manhattan del deserto; l’immensità del deserto che da Sa’da scende fino a Mukallà; il grande porto coloniale dell’infuocata Aden, dove di giorno la colonnina di mercurio oltrepassa i quarantacinque gradi; l’azzurro intenso del mare punteggiato dal nero delle donne che fanno il bagno vestite.

Questo era lo Yemen prima che dal cielo cominciassero a piovere le bombe.

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