C'era una volta la carovana della libertà

È un sabato di luglio del 1991. Non proprio ieri ma neppure l’Alto Medioevo. Da Stalvedro a Mendrisio, su un’ottantina di chilometri tra i più pregiati di tutto un continente che si sta mettendo in marcia per le vacanze si rovescia la rabbia di chi protesta contro un decreto federale anti inquinamento.
A riportarmi alla memoria questo gesto di convinta disobbedienza civile, romanticamente coinvolgente per l’apparente spontaneità di un’azione così clamorosa - nata dall’idea di un giovane granconsigliere che le vicissitudini della vita avrebbero poi portato sino al soglio del sindacato cittadino - sono state le reazioni alla manifestazione di settimana scorsa sulla tragedia umanitaria che si sta consumando a Gaza e all’ingorgo che ne è scaturito.
Mi sono domandato che cosa avrebbero pensato l’amico Flavio Maspoli - che di quella «carovana della libertà», peraltro in realtà molto ben coordinata con la polizia cantonale, ci aveva parlato tante volte nei nostri infiniti pellegrinaggi hockeistici dell’epoca - e soprattutto il Nano, del quale non era necessario condividere il pensiero per apprezzare slanci e impeti di dubbia consistenza ma certamente di grande impatto. Non tanto sul merito della questione, è chiaro, bensì sulle modalità di espressione adottate per affrontare l’argomento: scommettiamo che loro non avrebbero esitato a ricreare una situazione di grave disagio collettivo se soltanto avessero ritenuto necessario farlo?
I tempi, i venti e i ruoli personali però sono decisamente cambiati a Lugano: e allora non deve stupire più di tanto se proprio dalle pagine che hanno fatto la storia politica di questi personaggi sono piovuti gli anatemi più feroci contro i manifestanti, colpevoli quasi più di aver messo in crisi il nostro fragile e cronicamente debilitato sistema viario che non di averci sbattuto in faccia la loro rabbia.
In una città che soffre di schizofrenia da deficit di mobilità l’argomento traffico oggi è una carta assolutamente vincente: è successo con il referendum per l’ampliamento delle zone a velocità ridotta - ormai definitivamente morto e sepolto in ossequio alla volontà popolare e per effetto dell’inadeguatezza comunicativa a sostegno dell’iniziativa - succede ogni giorno e succederà sempre. La fluidità della circolazione è ormai diventata un irrinunciabile parametro della nostra libertà e qualsiasi manovra che possa perturbarla si trasforma in un vero e proprio attentato. Siamo schiavi delle colonne e dei rumori ma non vogliamo pensare a come disfarcene: anzi, si direbbe che abbiamo sviluppato una sorta di sindrome di Stoccolma a quattro ruote.
Se non fosse così si starebbe lavorando seriamente al piano viario, valutando interventi correttivi che sulla base del semplice buon senso porterebbero indubbi benefici: nessuno ha mai pensato che sarebbe logico invertire il senso di accesso agli autosili di via Balestra e viale Cattaneo? O che sarebbe indispensabile impedire il cambio di corsia in Corso Elvezia sin dall’immissione da via Balestra?
Per non dire di come ai bisogni del Signore del traffico non si esita a immolare il sonno dei cittadini, che senza alcun preavviso si ritrovano un cantiere notturno di una settimana su una via a forte concentrazione abitativa, dove sarebbe bastato sacrificare la corsia di sinistra, di fatto inutile e infatti quasi inutilizzata, per organizzare i lavori durante il giorno con pochi e sopportabili inconvenienti (per chi non l’avesse riconosciuto si tratta proprio del lato di Corso Elvezia su cui fa ancora bella mostra di sé l’irrinunciabile freccia a sinistra verso St. Moritz…). Ma si sarebbe trattato di un autentico affronto, che sua Maestà il traffico, l’incontrastato sovrano della città, non avrebbe mai accettato.