Lugano

Chiude Wong Ho, la «Chinatown» luganese è scomparsa in silenzio

Il ristorante Fiume Giallo è solo l'ultimo a chiudere i battenti – I proprietari: «Tanta concorrenza in Italia, è ora di andare in pensione»
Una veduta esterna del ristorante di Via Zurigo © CdT/Gabriele Putzu
Davide Illarietti
17.12.2023 06:00

I tre leoni d’oro osservano via Zurigo da tempo immemorabile, bocca digrignata e lo sguardo fisso nel vuoto che, oggi, sembra interrogativo: forse si stanno chiedendo dove saranno, tra un mese. Il loro proprietario Ming Pun ci penserà a tempo debito.

In quarant’anni di attività gli arredi orientaleggianti del ristorante Wong Ho - leoni compresi - sono diventati parte integrante del paesaggio della via, mentre intorno la città cambiava. Il campus dell’Usi, i palazzi d’uffici su piazza Molino Nuovo non esistevano, quando per la prima volta il cuoco Ming Pun ha varcato la soglia che oggi è sormontata da una tettoia in plastica che evoca la Città Proibita, con il cartello «solo contanti» e il menù d’asporto.

«Non guardatelo, gli orari sono sbagliati» precisa Ming. A mezzogiorno il ristorante è chiuso - «non ne valeva la pena» - e intorno regna una certa desolazione. Le lanterne ciondolano sbiadite sulle teste dei rari passanti. Dall’altra parte della strada fervono i lavori di un cantiere i cui operai non vengono a mangiare da Ming. Proprio di fronte sorgerà un palazzo di sette piani con 90 nuovissimi appartamenti e negozi, ma i tre leoni di Ming non vedranno la fine dei lavori.

La Chinatown scomparsa

La decisione di chiudere uno dei primi ristoranti cinesi del Ticino è maturata nei mesi scorsi. «Ormai siamo vecchi» spiega Shi-Lia Pun, moglie del titolare che quest’anno ha computo 65 anni. «È giusto che anche noi andiamo in pensione, come fanno tutti». Anche il mito dello stakanovismo orientale - vero in parte - fa i conti con il tempo che passa, il mercato che cambia. Nel 2018 ha chiuso i battenti, sempre per ragioni anagrafiche, il ristorante Cina di Piazza Riforma. L’anno prima era toccato al Bellariva, in Riva Caccia, altro esercizio storico: al suo posto sorgerà un complesso di appartamenti di lusso, il cantiere è già in corso.

Il Wong-Ho era l’ultimo «baluardo» di una vecchia Chinatown sparsa per il centro di Lugano - un altro era lo Shangai sempre in via Zurigo, pochi metri più avanti: chiuso anch’esso di recente - di cui oggi resta solo il ricordo. «Quando siamo arrivati noi esisteva solo il ristorante di fronte al Municipio, che ora non c’è più, e un ristorante di una mia amica a Locarno» ricorda la signora Shi-Lai mentre, lista alla mano, si prepara a fare la spesa per la serata. «Piano piano hanno chiuso tutti».

L’effetto Covid

Un duro colpo è arrivato con la pandemia. Oltre alla fatica delle chiusure forzate, sopportata da tutti i ristoranti, quelli cinesi hanno dovuto far fronte al panico psicologico e a una certa dose di pregiudizi, prima e dopo l’emergenza sanitaria vera e propria. «La gente non veniva per paura dei contagi, anche se nessuno di noi era stato in Cina da molto tempo. Abbiamo sofferto molto. Poi per fortuna, piano piano, i clienti sono tornati» ricorda Shi-Lia. Con l’aumento delle ordinazioni d’asporto e le consegne a domicilio gli affari «si sono comunque ripresi» anche se parallelamente la concorrenza è aumentata in modo spietato.

Nel 1983, quando ha aperto i battenti il Fiume Giallo - traduzione in italiano di Wong-Ho - lo «home delivery» era agli albori e i pionieri del servizio erano proprio i pochi ristoranti cinesi. Oggi solo nel centro di Lugano si contano 14 ristoranti sushi o «fusion» e le consegne a domicilio, anche senza contare le aziende specializzate come Divoora, sono diventate la norma. Tra i tavolini del Wong-Ho, al confronto, si respira un’aria di vecchi tempi in cui la tecnologia e il digitale erano ancora da venire. I titolari si definiscono «persone timide» che non amano troppo apparire - nessuno dei due ha volto essere fotografato per questo articolo - e ammettono di avere «ancora qualche difficoltà con l’italiano».

La concorrenza in Italia

Proprio l’autenticità - oltre all’ottima cucina - è il punto di forza del Fiume Giallo. E quello che lo distingue dalla ristorazione asiatica di nuova generazione. Non tutti però sembrano apprezzarlo. «Oggi i giovani amano andare a mangiare giapponese, magari in Italia dove tutto costa meno» ragiona la signora Pun. Negli ultimi vent’anni molti suoi connazionali hanno aperto attività a Lavena Ponte Tresa, facendo ottimi affari. Nella città di confine - a venti minuti dal ristorante Wong-Ho - sono 134 i residenti di origini cinesi, in pratica uno straniero su quattro (dati ISTAT 2020), e gestiscono una quindicina di ristoranti a fronte di appena cinque ristoranti italiani.

Una comunità in contrazione

«È chiaro che vivendo e lavorando qui non possiamo fare gli stessi prezzi» lamenta. «Abbiamo comunque una clientela affezionata, che ci ha espresso il suo dispiacere per la decisione di chiudere. Ma cosa dovevamo fare? Non possiamo andare avanti in eterno».

Il Wong-Ho chiuderà definitivamente il 31 dicembre. Ma le motivazioni, nonostante tutto, non hanno tanto a che fare con il lavoro in sé: come per molti esercizi analoghi, lo scoglio insuperato è il ricambio generazionale. «Le nostre figlie sono cresciute e hanno studiato qui, si sentono svizzere e fanno altri lavori, sicuramente migliori del nostro» confida Shi-Lai Pun. In Ticino la «prima generazione» cinese conta ormai appena 200 individui - il totale dei cittadini della Repubblica popolare in Svizzera era di 20.550 secondo l’USTAT nel 2021, un quarto che nella sola Lombardia - e non è raro che tornino in Cina dopo la pensione, a differenza delle seconde generazioni tendenzialmente bene integrate.

«Il lavoro fortifica»

I coniugi Pun hanno già deciso che rimarranno a Lugano. Sono originari di Hong Kong,  una città che nel frattempo «è cambiata tantissimo non per forza per il meglio» osserva Shila. Sono arrivati in Svizzera «in cerca di fortuna» e sentono di averla trovata. Le motivazioni economiche, su questo i due coniugi concordano, non sono la ragione della chiusura.

Ming non concorda però con la moglie su un altro punto. Lui, che ha 67 anni, avrebbe continuato a lavorare ancora a lungo. Ha sempre fatto il cuoco e - assicura - è ancora decisamente in forma. «È il lavoro a tenermi in forma. Fosse stato per me, non avrei smesso ora e avrei continuato fino a quando le forze me lo avrebbero permesso». Salendo i quattro piani di scale che dal ristorante conducono all’appartamento della famiglia Pun, senza ascensore, vien da pensare che forse il signor Ming ha ragione. Fisico snello, secco come un chiodo, ha un’aria stanca ma in salute.

«Quella della ristorazione è una vita faticosa, casa-lavoro e poco altro» racconta. «Si lavora dalla mattina alla sera tardi e nelle pause, come in questo momento, bisogna riposare». Sulla soglia di casa Ming non ha troppa voglia di perdersi in chiacchiere: è ora di andare a letto. Nel pomeriggio dovrà preparare le ultime cose prima del servizio serale. Uno degli ultimi: poi anche lui dovrà prendersi - volente o nolente - il meritato riposo.

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