L'intervista

Da Mendrisio sino al Bronx

L'esperienza della psichiatra svizzera Eleonora Cavalca
Prisca Dindo
05.06.2022 06:00

Il posto in cui lavora non sembra appartenere alla realtà. Sembra emergere dalla città oscura e violenta dove il Jocker del regista Todd Phillips inizia la sua inesorabile discesa negli abissi della pazzia. Tuttavia non vive in un film e non lavora a Gotham City, bensì nel Bronx di New York, uno dei quartieri più violenti e pericolosi della metropoli. Qui il divario tra ricchi e poveri è abissale e spesso la troppa sofferenza si trasforma in follia. Non per nulla quando le si chiede di descrivere la sua quotidianità, la parola che ripete di continuo è “paura”. Ricerche scientifiche in Psychodynamic Developmental Neuroscience, una nuova disciplina che combina la psicoanalisi con le neuroscienze, un Masters of Arts in Psicologia e un Ph.D. in Clinical Psychology, Eleonora Cavalca, nata a Lugano nel 1984, lavora al Pronto soccorso psichiatrico del North Central Bronx Hospital. È uno degli ospedali pubblici del quartiere. Qui tutti hanno diritto alle prime cure: anche chi è talmente povero da non avere nessuna copertura assicurativa.

Dottoressa Cavalca, ci può tracciare l’identikit dei suoi pazienti?
«È gente poverissima, sottoposta a continui traumi e stress psicosociali inimmaginabili. Alcuni hanno alle spalle quindici o vent’anni di prigione. Altri hanno problemi mentali molto seri e altri ancora, anni di tossicodipendenza».

Una laurea, due master, un dottorato... Quando smetterà di studiare?
«Sono sempre stata curiosa. Ricordo che a cinque anni comunicai ai miei genitori che volevo imparare l’inglese. Avevo già deciso che da grande sarei andata via dal Ticino. Fu mio nonno a captare questa mia voglia di esplorare il mondo. Perché psicologia? Perché attorno alle malattie mentali ci sono ancora troppi pregiudizi. Il cervello e’ un organo come tutti gli altri: quando ha problemi necessita di cure. Eppure chi soffre di un disturbo mentale è costretto a nascondersi. Io voglio combattere lo stigma delle malattie mentali. Chi soffre va curato, non emarginato. Questa è la mia missione».

Come si scandiscono le sue giornate al Pronto soccorso psichiatrico ?
«Ogni mattina devo oltrepassare due porte blindate per accedere al mio posto di lavoro. Il Bronx non è un luogo per sprovveduti. Non sono rari gli interventi per bloccare gente violenta all’interno della struttura ospedaliera».

Il mio è un lavoro d’emergenza. Determino se chi arriva al Pronto soccorso rappresenta un pericolo per sé stesso e per gli altri

Di cosa si occupa di preciso al Pronto soccorso psichiatrico?
«Il mio è un lavoro d’emergenza. Determino se chi arriva al Pronto soccorso rappresenta un pericolo per sé stesso e per gli altri. In pratica devo decidere nel breve colloquio (una trentina di minuti circa) se la persona che ho di fronte è in grado di uccidere: sé stessa oppure gli altri. Quando penso che potrebbe rappresentare un pericolo (dal profilo legale) allora predispongo il suo ricovero in un reparto chiuso. Se invece concludo che è in grado di tornare a casa senza creare problemi, la faccio dimettere. Poi ci sono i casi che si trovano a metà strada: persone che trattengo al Pronto soccorso per alcuni giorni. Sono soprattutto tossicodipendenti con sintomi di astinenza. Ne vedo moltissimi».

Come si svolgono i colloqui?
«Tra noi e i pazienti ci sono vetri anti proiettile. Tuttavia l’intervista che mi permette di capire lo stato mentale di chi ho di fronte si svolge sempre al di fuori da questa “bolla”. Nella stanza ci sono io e il paziente. Per fortuna le misure di sicurezza dell’ospedale sono ottime. Mi sento protetta».

Oltre alle emergenze lei ricopre un altro ruolo al North Central Bronx Hospital, quale?
«Mi occupo della gestione di situazioni traumatiche. Gran parte della popolazione del Bronx vive in condizioni pietose. La gente abita in appartamenti spesso sovraffollati e infestati da ratti e scarafaggi. Credetemi: campare in quelle condizioni senza scompensi psichici è quasi impossibile. Ci sono poi pazienti che hanno subito traumi a causa delle uccisioni dei loro cari. Le sparatorie di quartiere sono all’ordine del giorno. Infine ci sono gli anziani, ricoverati all’ospedale per protocollo. Arrivano dalle case di riposo perché diventano violenti. Io devo capire se la loro aggressività deriva dalla demenza senile oppure se c’è dell’altro: condizioni mentali tipo schizofrenia, depressione, disturbi bipolari».

«Sì, valuto anche lo stato mentale dei più piccoli. Devo decidere se ospedalizzarli in altre strutture oppure se possono fare ritorno a casa

Tra i suoi pazienti figurano anche bambini…
«Sì, valuto anche lo stato mentale dei più piccoli. Devo decidere se ospedalizzarli in altre strutture oppure se possono fare ritorno a casa. Le loro giovani vite sono costellate di drammi e ingiustizie. Alle spalle hanno storie terribili, che spezzano il cuore. Spesso vivono con genitori adottivi, perché le loro mamme e i loro papà sono deceduti oppure sono tossicodipendenti seriali. Purtroppo le adozioni nel Bronx avvengono spesso per mero interesse, non per amore per il prossimo. Negli Stati Uniti chi adotta riceve aiuti finanziari. I bambini sono trattati come merce interscambiabile e passano di casa in casa. I maltrattamenti per loro sono all’ordine del giorno».

Quali sono i problemi più frequenti tra i piccoli?
«Il paziente tipico tenta di suicidarsi già a nove anni. Cerca di uccidersi con un over dose di uno dei medicamenti che trovano nelle farmacie di casa, tipo il paracetamolo. I bambini preferiscono morire così piuttosto che continuare a subire ingiustizie, maltrattamenti. Vivere con gente che ti ha adottato e che non ti vuole bene è un inferno. Il disagio ha effetti pesanti sulla loro psiche. Quando non riescono ad ammazzarsi, diventano violenti e pericolosi per la società: per loro il supporto del nostro ospedale è fondamentale».

Lei si trovava nel Bronx anche durante la fase acuta della pandemia da coronavirus. Ci racconti la sua esperienza durante i lockdown.
«Durante la pandemia ho lavorato in prima linea in Medicina e Chirurgia, reparto di Terapia intensiva: dovevo stabilire se alcuni sintomi apparentemente psichiatrici erano dovuti al Covid, che purtroppo agisce anche sul cervello, oppure ad una malattia psichiatrica. Nel frattempo il numero di pazienti che si presentava al Pronto soccorso psichiatrico era crollato. Il timore del contagio era elevato e la gente non usciva da casa. Ciò ha comportato problematiche importanti perché molte persone malate non hanno ricevuto le cure necessarie. Non solo: il lungo isolamento ha causato in loro un deterioramento generale. I sintomi delle malattie mentali si sono acuiti. Parlare con lo psicoterapeuta via zoom non è come vedere il medico di persona. La mancanza del contatto umano è stata devastante per i pazienti psichiatrici. Molti smettevano di prendere le medicine e finivano al Pronto soccorso. Altri si toglievano la vita o morivano di overdose. “La pandemia non fa distinzioni” si diceva. La verità è che il coronavirus ha colpito maggiormente i più poveri. Sono i più fragili ad aver pagato il prezzo più alto».

I primi giorni di pandemia? Niente era facile. In giro c’era pochissima gente, New York sembrava una città fantasma

Ci racconti New York nei primi giorni di pandemia. Lei era lì, in prima linea…
«Niente era facile. In giro c’era pochissima gente, New York sembrava una città fantasma. Sui vagoni della metropolitana viaggiavo da sola e quando incrociavo qualcuno, abbassavo subito lo sguardo, per non attirare l’attenzione. Più volte mi hanno sputato addosso. Avevano paura che io fossi un’untrice, che portassi in giro il virus. Lo facevano perché indossavo lo “scrub” e la gente era terrorizzata di infettarsi attraverso gli indumenti sanitari. Ogni mattino dovevo motivarmi. Avevo davvero paura. Ancora oggi devo cambiare diverse volte il vagone della metropolitana per evitare di essere attaccata. La violenza in città durante il Covid è esplosa perché i poveri sono diventati ancor più poveri».

Come ha vissuto l’emergenza in corsia?
«È stato difficile, anche fisicamente. Oltre alla classica mascherina che copriva naso e bocca, indossavamo la maschera da sub e la visiera. Facevo fatica a respirare. Eravamo tutti talmente bardati che a volte in corsia non ci si riconosceva. E ciò è doppiamente problematico in un ospedale dove occorre applicare protocolli con prontezza. Ma la prova più dura è stata quando dovevo consegnare l’Ipad ai pazienti Covid per i quali non c’era più nulla da fare. Sentirli dire addio ai loro cari da remoto è stato straziante. Come pure vedere la loro disperazione quando venivano a sapere che il coronavirus si era portato via uno dei loro famigliari. Più volte dovevo uscire dalla stanza per asciugare la maschera da sub colma di lacrime».

L’America è ancora il Paese nel quale si realizzano i sogni?
«Se non sei povero sì, l’America è ancora il paese in cui i sogni si realizzano. Qui se hai idee, puoi diventare ciò che vuoi. C’è un’altra particolarità. Mentre in Europa non si sbandiera volentieri le proprie origini umili, in America succede l’esatto contrario. Venire dal basso è motivo di orgoglio. Io ho una laurea, due master e un dottorato, ma è quando racconto di essere la prima della mia famiglia a essere andata all’università che la stima nei miei confronti aumenta. Questo non significa che sia un Paese facile. Tocco con mano ogni giorno la spietatezza di questo Paese con chi è nato povero.

Sono stata scelta perché durante la pandemia non ho mollato. Avrei potuto lasciare tutto e tornare dai miei genitori che ora vivono in Italia, invece sono rimasta

Lo scorso anno a New York sono state premiate dieci donne per la loro resilienza durante la pandemia. Tra loro, figurava pure lei. Le ha fatto piacere?
«Sono stata scelta perché durante la pandemia non ho mollato. Avrei potuto lasciare tutto e tornare dai miei genitori che ora vivono in Italia, invece sono rimasta. Non è stato un periodo facile. Io qui sono sola e New York non è una metropoli facile. Eppure ho tenuto duro. Resilienza significa tenacia, persistenza, ma anche voglia di imparare qualcosa anche dai momenti difficili. Ed è ciò che ho fatto. Nel futuro continuerò a battermi contro lo stigma della malattia mentale. Gettare la spugna, sarebbe come tradire la mia stessa natura».

Tornerà un giorno in Ticino?
«Mai dire mai. Tanto più che ho un ricordo molto vivo di alcuni pazienti della clinica psichiatrica cantonale di Mendrisio, dove a diciott’anni feci il mio primo stage estivo. Magari un giorno tornerò in Ticino».