L'analisi

Difficile essere pastore e maestro

Viviamo stagioni di fragilità diffuse, di incertezze che si moltiplicano, non è pensabile che quanto succede nella società civile non lambisca la vita religiosa e chi la esprime
Giuseppe Zois
09.10.2022 07:00

Da sussurri a voci, sempre più consistenti da settimane, fino a diventare notizia: le dimissioni del vescovo Valerio Lazzeri. La formalizzazione è annunciata come imminente, questione di giorni, ormai forse di ore. E si alza il sipario su ciò che va ad accadere, dalla Curia con irradiazioni estese alla diocesi, fin oltre San Gottardo e a Roma. Non è la prima volta da noi: già nel 1985 ci furono quelle di Ernesto Togni, accettate il 21 giugno e comunicate il 24, con nomina dell’amministratore apostolico che rimase in carica per un anno, fino al 28 giugno 1986.

Adesso si tratta di vedere come si svilupperà il futuro, il possibile «nuovo» rispetto al passato.

E qui ci si trova subito confrontati con un nodo all’ipotesi già affacciata di un eventuale vescovo ausiliare in arrivo da altra diocesi svizzera nel periodo di sede vacante. Emozioni e sentimenti si mischiano negli stati d’animo dell’opinione pubblica, del popolo dei credenti e di chi sta all’esterno delle chiese. In termini meteo: nubi e nebbia, anche perché non si può dimenticare la convenzione che vuole il vescovo di Lugano, anche un eventuale ausiliare, con cittadinanza ticinese («ressortissant tessinois»).

Ha dimissionato un Papa con svolta storica nel XXI secolo: Benedetto XVI (11 febbraio 2013); più che comprensibile e normale che lo faccia anche un vescovo. Le ragioni possono andare dalla malattia all’insostenibilità di un ruolo. Può sembrare un po’ paradossale che il peso cresca in un tempo in cui le chiese stanno perdendo fedeli. Il fenomeno si è accentuato in questi due anni e mezzo di covid, non ancora del tutto debellato, con lockdown e porte chiuse per mesi a ogni liturgia.

Ma lo vediamo e sentiamo tutti: viviamo stagioni di fragilità diffuse, di incertezze che si moltiplicano. Non è pensabile che quanto succede nella società civile non lambisca la vita religiosa e chi la esprime, a partire dai posti più alti fino alle ultime parrocchie di valle. Si parla e si scrive delle nostre ansie che sconfinano nella sensazione di provvisorietà e angoscia, di un futuro che sta fermo, di una serenità sempre più difficile da trovare. Come potrebbe restarne immune chi è chiamato a gestire la sfera dell’anima, a trasmettere ciò che si è fatto e diventa sempre più complesso (o comunque tale è la percezione soggettiva)? È arduo infondere fiducia, positività, speranza quando tutto attorno scricchiola o vacilla sotto i piedi e le saldezze ondeggiano.

Ogni vescovo porta il suo carisma, esprime la sua personalità. Dalla metà del Novecento a oggi siamo passati sotto 7 vescovi: da Angelo Jelmini negli anni del Concilio a Giuseppe Martinoli nella traduzione concreta e faticosa del Sinodo diocesano; da Ernesto Togni con la sua ventata di primavera a Eugenio Corecco che ha portato sulla soglia del nuovo millennio, aprendo la diocesi al nuovo corso delle zone pastorali, pioniere in parallelo del Cantone universitario grazie alla facoltà di Teologia e Filosofia, come riconosciuto dai consiglieri di Stato (Buffi e Gendotti in primis). Poi la continuità nel cambiamento con Giuseppe Torti parroco del Ticino; quindi dinamismo, progettualità e opere con Pier Giacomo Grampa, il primo dopo Martinoli a iniziare e portare a compimento la Visita pastorale dalle città fino all’ultimo villaggio e in contemporanea i restauri della Cattedrale e della Curia, il salvataggio del GdP, l’acquisizione del monastero San Giuseppe diventato Seminario e Centro diocesano. Dal 2013 (nomina il 4 novembre e ordinazione il 7 dicembre), sulla Cattedra di San Lorenzo siede Valerio Lazzeri, chiamato all’arduo compito di fare sintesi tra dimensione intellettuale e pastorale.

Siamo immersi nella società post-liquida, post-informatica, addirittura gassosa: al vescovo con la sua impronta, la sua visione e i suoi preti tocca traghettare e guidare una post-modernità con l’esigenza quasi perentoria di coniugare passato e avvenire, tradizione e cambiamento, moderazione e coraggio. Una civiltà che viaggia quasi a ossimori, il freddo bollente. Imperativo un cambio di passo, ripetono tutti dalla politica alla finanza, dalla cultura alla religione. Adeguamento tormentato, sfida che fa tremare i polsi e ne sono puntuale e fedele termometro le cronache del presente.

Essere pastore e maestro in un’epoca di relativismo, di indifferenza, di Vangelo «à la carte». Papa Bergoglio, arrivato nell’anno di Lazzeri, chiede e vuole una gerarchia che senta l’odore delle pecore, una Chiesa ospedale da campo. E Turoldo, con lucida e provocatoria lungimiranza, parlava mezzo secolo fa delle «pecore che spesso possono salvare il pastore». La stessa fede chiama a «vedere con gli occhi di Dio la realtà delle cose». A incarnare e riassumere questa tensione è portato il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo alla guida di Milano dal 1979 al 2002, una delle diocesi più vaste su scala mondiale. Bergoglio e Martini, due modelli di stile diverso: uno prorompente, l’altro meditativo. Entrambi operativi, a entrambi è chiamata a riferirsi la Chiesa in cammino fra studio, ricerca, soprattutto ascolto. Un predecessore di Martini, il cardinale Colombo, definì l’episcopato «un vortice di dolore». La responsabilità, a ogni livello, pesa. Tutto ciò che sa di dominio crea allergia, anche nel mondo spirituale, ma è chiaro ancor più in questo campo che la ragione non può essere la misura di tutto.

Dovrà sveltire il passo e sentire il respiro del tempo anche la Congregazione dei vescovi a Roma nella scelta dei nuovi pastori e forse qualcosa di nuovo verrà dalle tre donne che Papa Francesco nel luglio scorso ha chiamato tra i membri del Dicastero per i vescovi. La sensibilità e la praticità femminile costituiranno di sicuro un’importante cartina di tornasole in quegli ambienti. La vetta alla quale tendere, l’erto calle da salire, è da una parte la risposta alle inquietudini del cuore e dall’altra incoraggiamento, sostegno, ottimismo, che sono gli ingredienti della gioia, un «servizio» che il vescovo Togni aveva scelto come suo motto episcopale. Questo, forse, continua ad aspettarsi la gente dai vescovi e dai preti, cioè dalla Chiesa, anche nel tempo delle «infosfere».