Amarcord

Ecco come andò il 31 maggio 1993

Quel pomeriggio nel vecchio Wankdorf tra effluvi di bratwurst e sapore di vittoria
Claudio Meier
15.05.2022 06:00

Diciamola tutta. Quel 31 maggio 1993 la parte più bella della finale di Coppa fu quella che si giocò prima e dopo, fuori dal campo. La carovana dei diecimila tifosi bianconeri verso il Wankdorf all’andata e l’invasione di Piazza Riforma al ritorno, le bandiere e il tifo allo stadio, l’urlo quando gli amici-fratelli Tita Colombo e «Johnny» Walker (anche chiamato Philipp) alzarono la Coppa nel cielo bernese, gli applausi i canti e le lacrime sotto il balcone di Palazzo Civico la sera quando il trofeo venne offerto a tutta la città. Chi c’era, ricorda le emozioni; chi non c’era, se le fa raccontare, dalla televisione, dalla radio o dagli amici.

Tutto in 15 minuti…

Per carità, non è che voglia sminuire l’impresa calcistica, i meriti tecnici e caratteriali della squadra. Ma la verità è che la finale si consumò in poco tempo, in pratica in quel quarto d’ora che servì a Paulo Andrioli per scaraventare la palla in rete dopo un esasperante - per chi guardava dalle tribune, non certo per lui che da buon brasiliano non ha paura di esagerare - dribbling che gi servì a far fuori due difensori prima di piazzare il sinistraccio in rete. Il Grasshopper, quell’anno, semplicemente non aveva i mezzi morali per rivaleggiare. Non per scarsità tecnica di giocatori: in quella squadra c’era gente del calibro di Brunner, Koller, Sforza, Bickel, Alain Sutter, tutti nazionali, e del brasiliano Elber. Quanto sarebbe bastato, in circostanze normali, per far tremare qualunque avversario. Ma normale quella stagione non fu per le cavallette zurighesi, che addirittura finirono nel girone per la salvezza - dal quale poi riemersero - e che si affidarono al «santone» olandese Leo Beenhakker, uno che aveva vinto molto e visto tutto. Una di quelle mosse da ricchi un po’ presuntuosi, se vogliamo dirla tutta: alla fine non bastò, né in campionato né tantomeno in coppa dove per vincere bisogna saper lottare e soffrire.

Lotta e sofferenza

Lotta e sofferenza erano invece il secondo e terzo nome del Lugano. Con uno come Karl Engel in panchina non si può non lottare e chi non è capace di soffrire, beh, rimane seduto vicino all’allenatore. La sofferenza era una lezione che il Lugano aveva imparato sulla sua pelle l’anno prima, nello stesso Wankdorf, nella stessa finale di coppa. Contro una squadra che della lotta ha sempre fatto una bandiera, il Lucerna. Contro giocatori come Urs Birrer che rinfoderò il fioretto - lui che tecnicamente non era male - e tirò fuori l’alabarda per azzannare le caviglie del bomber bianconero Dario Zuffi, anche oltre i limiti. Raccontò poi Engel: «Alla fine l’arbitro Arturo Martino (alla sua ultima partita in carriera, ndr.) venne da me dicendo che era contento per aver diretto una finale senza tirar fuori nemmeno un cartellino giallo. Io lo guardai come se fosse un matto».

Perdere una finale, arrivare secondo, è peggio di non averla nemmeno giocata. È una verità scomoda che qualunque sportivo vi dirà. Lo so che bisogna accettare le sconfitte, che bisogna vedere sempre il lato positivo, eccetera eccetera. In teoria. Poi la pratica ti lascia sconvolto, svuotato, incredulo, a ripassarti nella testa ogni minuto, ogni giocata. Per giorni e giorni, a volte per mesi e anni.

La forza dell’esperienza

Il segreto sta forse nel nascondere un po’ di quella esperienza da qualche parte, in un angolo del cervello e del cuore, per tirarla fuori al momento buono.

Il momento buono, per il Lugano, fu quel 31 maggio 1993. Ma anche prima, in tutti i passaggi che lo portarono alla finale. Negli ottavi a Berna, gelato ai supplementari dallo Young Boys poco dopo esser andato in vantaggio e poi vincitore all’ultimo rigore della serie; nei quarti contro lo Zurigo, rimontato due volte ma galoppante nell’ultimo quarto d’ora; in semifinale a Neuchâtel, anche qui facendosi rimontare al 91’ un vantaggio addirittura doppio ma domando lo Xamax ai supplementari. Dove al Grasshopper, per arrivare in finale, bastarono i regolari 400 minuti, al Lugano tra supplementari e rigori ne servirono 530. Una partita e mezza in più.

Il «golasso»

Di epica i bianconeri ne avevano consumata abbastanza, in quella stagione e nella precedente, per lasciarsi intimidire nella seconda finale. Questa, la condussero dall’inizio alla fine, permettendosi anche il «lusso» di siglare la partita con un «golasso» da quaranta metri del Ross, al secolo Fornera William da Losone. Uno che non si tirava mai indietro quando c’era da mordere un avversario, da stappare una birretta o da fara una battutaccia. Quella del Wandorf fu: «Se non segnavo io, invece che una finale di Coppa Svizzera sarebbe stata una finale di Coppa Libertadores, con tutte quelle reti sudamericane (Andrioli, Subiat, Elber)».

A rendere più ticinese la festa fu Meo Pelosi, che in anteprima aveva regalato al Lugano anche l’altra Coppa, quella Speranze, con una tripletta premonitrice allo stesso Grasshopper.

Che splendido pomeriggio quel 31 maggio nel vecchio Wankdorf, tra effluvi di bratwurst e di vittoria. Che splendido anno quel 1993 per il Lugano e per il calcio svizzero; il primo rivinse la Coppa dopo 35 anni, il secondo in autunno riconquistò un posto al Mondiale dopo 37. Nostalgia del passato? Oggi, semplicemente, è tempo di tornare a dipingere Berna di bianconero.

In questo articolo: