L'intervista

Fra teatro e arte con Ronconi, Cavani e Martone

A tu per tu con la scenografa Margherita Palli
Giorgia Cimma Sommaruga
15.01.2023 07:00

È considerata una delle scenografe più importanti della scena internazionale. È partita dal suo Ticino e dopo aver terminato l’Accademia di Belle Arti di Brera, ha iniziato a lavorare con Alik Cavaliere e Gae Aulenti. Ha vinto moltissimi premi, tra cui sei volte l’UBU (il riconoscimento ideato dal critico Franco Quadri, il più importante in Italia per chi lavora nel teatro), il Premio Abbiati, il Gassman, il Premio ETI, quello dell’Associazione nazionale critici di teatro e nel 2007 è nel Guinness World Records con il muro di schermi più grande del mondo (ben 4.138 da 7 pollici l’uno). E poi ancora il Premio svizzero di teatro. Margherita Palli (nata a Mendrisio nel 1951), per La Domenica ha ripercorso la sua carriera.

Partiamo dalla fine. Il suo ultimo progetto?

«Fedora alla Scala di Milano. Abbiamo debuttato ai primi di ottobre. Ora invece - anche se sono costretta a casa con la spalla rotta - sto mettendo a punto altre iniziative. Una al Piccolo Teatro, sto lavorando con Mario Martone con cui lavoro spesso però è la prima volta che faccio una prosa. Con il regista napoletano facciamo Romeo e Giulietta di Shakespeare al Teatro Strehler. Andrà in scena ai primi di marzo».

E poi?

«Dagli anni ’90 insegno e alla Naba, la Nuova accademia di Belle arti di Milano, sono direttrice della parte scenografica e con Marco Cristini, Eleonora Proietti e Emilia Zagnoli stiamo lavorando ad un nuovo progetto».

Di cosa si tratta?

«Uno spettacolo con i nostri studenti».

Lei non si occupa solo di teatro.

«No, anche di mostre. A fine mese il MAGA di Gallarate aprirà una esposizione su Andy Warhol che curo con Eleonora Peronetti».

Giorgio Strehler, un regista teatrale e un direttore artistico visionario. Lei ha avuto modo di conoscerlo e lavorare con lui?

«No, non ho mai lavorato con Strehler. L’ho visto una volta al Teatro dell’Odéon a Parigi perché ero lì con uno spettacolo di Luca Ronconi. Tuttavia mi piacciono molto i suoi spettacoli. Sono tornata con mio marito - Italo Rota - a rivedere l’Arlecchino qualche sera fa, mio marito è un appassionato. Però non è una persona che frequentavo, io lavoravo con Luca Ronconi, un altro grande regista italiano».

Cosa significa crescere anche professionalmente accanto a una figura come Luca Ronconi?

«Ho iniziato molto presto con lui, già nel 1983. E praticamente ho lavorato con lui fino alla sua morte nel 2015, ultimamente facevo soprattutto la lirica. Sono stata abbastanza fortunata a lavorare con Ronconi e con altri grandi registi, come la Liliana Cavani, con Aleksandr Sokurov e adesso con Mario Martone. Lavorare al fianco di questi personaggi significa anche imparare tante cose: hanno grande talento e in questo ambiente significa inevitabilmente crescere, allargare i propri orizzonti».

Dopo tanti anni quindi, era maturato un legame quasi fraterno con Ronconi?

«No, caratterialmente io sono un po’ orsa, lui pure. C’era - credo - una grande stima reciproca, ma non posso dire che ci trovavamo a ridere e scherzare o a confidarci segreti come due grandi amici. Lavoravamo assieme. Ci frequentavamo per motivi di lavoro, con discrezione».

Cosa le manca di questo rapporto?

«I suoi consigli. A volte mi diceva: «Leggi questo libro»; oppure: «Guarda questo film». E io lo stesso, era un modo nostro forse per dimostrarci affetto e rispetto, io ci tenevo alla sua opinione e lui alla mia».

Dagli anni ’90 si è dedicata anche all’insegnamento. Com’è riuscita ad instaurare un buon rapporto con gli studenti fino a lavorare con loro?

«Diciamo che io sono capitata all’insegnamento per caso nel 1991, nel senso che Franco Quadri mi aveva consigliato a Gianni Colombo per sostituire un docente che poi era andato in pensione alla Naba. In realtà, ho avuto docenti in casa: mio nonno e mia zia insegnavano a Lugano. Eppure non sono cresciuta con l’idea di insegnare. Però devo dire che è una professione davvero stimolante, ti trovi davanti una classe, un gruppo di individualità, e devi entrare in sintonia con loro se no il messaggio non passa. E poi è una grande sfida, anche se siamo umani e quindi è normale ci sia maggiore empatia con alcuni, anche se cerco sempre di non avere preferenze. Poi, mi piace molto seguire i giovani nel loro percorso, capire le loro aspettative, coi miei collaboratori siamo un gruppo affiatato, molti sono ex studenti. Come ho aiutato loro a scoprire il mondo dello spettacolo, che è pieno di sfaccettature, ora loro assieme a me aiutano tanti altri giovani».

Quindi tanti studiano spettacolo ma non sanno in realtà dove andranno a lavorare.

«Proprio così. Il nostro è un campo vasto: spettacolo significa da X Factor ai Legnanesi, all’opera lirica. E poi ancora, mostre, sfilate di alta moda. Così cerco di aiutarli ad intercettare il loro interesse primario, magari sono più orientati al design, oppure alla costruzione e progettazione vera e propria. Per fortuna una delle caratteristiche della Naba è che tutti i docenti sono anche liberi professionisti, non insegnano e basta, dunque è facile coinvolgere gli studenti anche in veri e propri stage sul campo».

Riescono tutti a trovare lavoro?

«Oggi sento spesso dire che non c’è lavoro nel mondo dello spettacolo, in realtà io colgo che ce n’è molto di più rispetto a quando ho iniziato io. All’epoca la scenografia era teatro, un pochino di televisione e alcune sfilate di moda. Oggi invece teatro e opera continuano ad essere forti, e poi ci sono le mostre, gli eventi, le sfilate, Milano è capitale della moda, ci sono gli sceneggiati, i video. Insomma ci sono molte iniziative, dunque chi è bravo e ha voglia di fare trova lavoro. Chiaramente queste professioni hanno necessità di tirocini abbastanza lunghi».

È cresciuta a Lugano ma ha sviluppato la sua attività professionale altrove. Torna ogni tanto?

«Certo, spesso. A Lugano ci sono le mie basi. Famiglia, conoscenze, amici di infanzia, dentista».

Cosa ricorda della Lugano di quando era una adolescente?

«Beh, adesso ci vengo volentieri. Ma allora era una città noiosa. Oggi è più effervescente, ho anche lavorato a Lugano, ho seguito alcuni progetti e vengo spesso a vedere mostre. Quando avevo 20 anni non vedevo l’ora di evadere. C’era fermento a Milano, a Lugano no. Non c’era grande attività culturale».

È arrivata a Milano nel ’68, ha vissuto in pieno gli anni ’70, il movimento studentesco e il femminismo.

«All’epoca Milano era molto diversa da quella che siamo abituati a vedere oggi. A partire dai colori. Penso che le tonalità prevalenti fossero il grigio, colori plumbei. C’era davvero tanta nebbia e anche i palazzi erano dello stesso colore. Negli anni ’70 c’era ancora una classe operaia non benestante, c’erano gli attentati, gli anni di piombo. Qualche settimana fa ricorreva la tragedia di Piazza Fontana. Io ricordo i miei genitori - all’epoca non c’erano i telefonini - che stavano a Lugano e sentivano alla televisione svizzera di questi attentati. Erano terrorizzati. Poi ovviamente quel periodo è passato e Milano è rinata dalle sue ceneri, anche se oggi mi capita di andare a Parigi, e mi sembra di essere comunque a Milano, ci sono gli stessi negozi, il clima è simile…».

Gli effetti della globalizzazione…

«Le città europee si assomigliano tutte. Io amo molto oggi una città come Tokyo, per noi che arriviamo da Milano penso sia uno degli unici posti in cui si possa cogliere la diversità e l’unicità».

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