Ho paura di una Lugano capitale della cultura

L'ultimo derby pesante tra Lugano e Bellinzona risale a quindici anni fa. In ballo c’era il solo posto disponibile nella serie A del campionato di calcio: in molti si ricorderanno come andò a finire, ma non è quello il punto. Oggi, in un contesto sportivo che sembra escludere a breve una rivincita tra le squadre delle due città, si prospettano invece confronti di tutt’altra natura: a livello di sviluppo demografico, con la capitale che cresce più in fretta e soprattutto in modo più stabile del maggior centro urbano del Cantone, ma anche di immagine, attraverso le rispettive candidature alla designazione di città svizzera della cultura del 2030.
Al di là delle frasi e delle cortesie di circostanza - tanto per ricordarci che la straordinaria adattabilità della dialettica politica non teme di spingersi anche oltre l’essenza stessa del principio di competitività che è alla base di qualsiasi contrapposizione agonistica - ci saranno vincitori e vinti. Com’è naturale e giusto che sia, visto che nessuno investe tempo e risorse per costruire un dossier solido e ambizioso per poi ritrovarsi comunque soddisfatto anche se a imporsi dovesse essere proprio la rivale più diretta. Sarò magari condizionato da quarant’anni di sport ma da questa convinzione non mi schioda nessuno.
Lugano o Bellinzona, quindi, resto della Svizzera ovviamente permettendolo. Partendo da presupposti diversi, gli uni con il supporto degli alleati di giornata - Locarno e Mendrisio - gli altri circondati dal loro beato isolamento. Come mai, verrebbe da domandarsi. E qui arrivo al cuore della questione. Una città è una città, due città e un magnifico borgo sono un’altra cosa. E se si voleva giocare la carta della connessione allora perché non completare il tavolo?
Strategie, affinità elettive, scorie del passato: tutto è plausibile, nulla è veramente convincente. Mi limito a ritrovare qualche inquietante similitudine tutt’altro che casuale con gli infiniti tormenti del Team Ticino. La mia vera preoccupazione, però, è un’altra: se da una parte infatti Lugano è addirittura ammirevole, magari appena un pizzico bulimica, nel voler rincorrere un posizionamento forte un po’ su tutti i fronti, dall’altra temo ci faccia difetto - notate: ci e non le, proprio perché penso sia un problema di tutti - l’energia vitale che la città prescelta deve essere pronta a esprimere per un anno intero.
Su questo punto ho davvero paura. Perché se per una sfortunatissima coincidenza anche nel 2030 dovesse esserci un fine settimana come quello appena trascorso con due giorni festivi faremmo una ben magra figura. Lugano è fatta così: una città che chiude, e resta ostinatamente chiusa, invece di aprire. Nonostante i turisti di un sabato di pieno sole e i suoi residenti che sotto la pioggia della domenica sono stati costretti a fare la fila ai distributori di benzina per qualsiasi acquisto. Prima di diventare città della cultura dovremmo impegnarci per cercare di diventare una vera città, con le dinamiche e le problematiche urbane che tanto apprezziamo quando viaggiamo. E per trovare dentro di noi e dentro la nostra città quella forza e quella vitalità che continuiamo a sperare di trovare in ciò che facciamo per mettere in mostra ciò che ancora non siamo.

