La storia

Il design della normalità

Quegli oggetti comunissimi, dal cerotto allo stuzzicadenti, ci fanno capire che l'uso quotidiano è fatto soprattutto di forme semplici
Stefano Salis
12.06.2022 06:00

Guardatevi attorno, nelle vostre case, nei vostri scaffali, nelle vostre scrivanie. Alzate lo sguardo e portatelo sugli oggetti che custodite in cucina, in bagno, nella vostra camera. Sorseggiate un po’ di caffè, accendete la lampada, vi accomodate su una sedia, vi lavate i denti con uno spazzolino, prendete in mano una matita: gli oggetti sono intorno a noi e ci si «nascondono»: soprattutto quelli perfetti, quando la forma, non più riducibile è diventata contenuto perfetto e non ulteriormente perfezionabile. Spariscono alla nostra vista, alla nostra percezione, perché ormai incarnano l’ «essenza» stessa: forbici che sono forbici, tappi che sono tappi, bicchieri che sono bicchieri.

Si tratta di un capitolo non nuovo del design, che già Bruno Munari aveva chiaramente individuato, in quelle cose umili e di forma perfettamente organizzata (un bidone, una valigia, una vanga) che non hanno bisogno dell’autorialità per imporsi o che, anche se la hanno, sono ormai talmente dentro le nostre vite, le nostre mani, da far parte del nostro orizzonte conoscitivo di riferimento. Pensereste a una bottiglia che non abbia il collo?

Rendersi conto della perfezione

Potremmo andare avanti a lungo, con discorsi teorici e anche fumosi, ma un libro recente ci mette sulla strada giusta per guardare con occhi rinnovati a queste cose, e a farci rendere conto della loro perfezione (forse involontaria) e della loro importanza. In un momento dove a Milano si svolge (chiude oggi, domenica) il Salone del Mobile, dove il design celebra le forme è più che mai salutare fermarsi a respirare, vedere, pensare.

«Queste «semplici formalità» trapassano le categorie del design anonimo e del munariano Compasso d’Oro a ignoti. Sono esempi radiosi dell’ottenimento efficace della funzione d’uso senza compiacimenti stilistici e atteggiamenti progettuali di pseudodesigner-star, ascrivibili spesso a un’autoreferenzialità pomposa che si presta altrettanto spesso al ridicolo (ahimè senza traccia di autoironia). Progettare è un’attitudine alla sintesi: questo elenco ne è una dimostrazione pratica e alla portata di tutti (e probabilmente nelle case di ognuno di noi), in cui rintracciare una solida conferma che il buon progetto, sintesi di valori formali, pratici, tecnici e materici, esiste e ci parla. Ascoltarlo, ogni tanto, può donarci momenti di autentico piacere». Leggere, rileggere, stampare e affiggere questa sequenza di parole in ogni scuola di design. Farà solo bene. A tutti.

Chi parla qui, o, meglio, scrive, è Giulio Iacchetti, designer di nome e azione, che i suoi compassi d’oro li ha già vinti (e che verosimilmente rivincerà) e che ha riempito di idee, progetti e oggetti, molte case, e guida, dall’alto della funzione di direttore artistico, ditte storiche come Danese. Ma che non smette di apprezzare, e godere, secondo un insegnamento che era caro a Enzo Mari («La forma è ottima quando non ha alternative. La forma di un manufatto è pessima quando ha molte alternative potenziali»), questi oggetti che incarnano tutto il meglio del design (come dovrebbe essere) senza essere «di design».

Un mini catalogo di icone

Volete gli esempi? Li conoscete tutti, ed è per questo che il libro «Semplici formalità» (Johan & Levi, pagg. 96 pagine, 36 immagini colore, € 16) è un magnifico mini-catalogo di icone, senza tempo e senza vanità.

Sono 32 «pezzi facili» la cui forma, da ammirare e gioire, riesce a riappacificare e a far riprendere le giuste distanze da un mondo del progetto spesso incartato dalle sue stesse cervellotiche soluzioni. Ecco allora, e cito alla rinfusa, il sacchetto di plastica e la chiave a brugola, le bottiglie Bordolese, Borgognotta, Champagnotta, Renana insieme allo stuzzicadenti, le patatine Pringles e la tazzina Illy, l’Arbre Magique e la capsula del Kinder Sorpresa.

E poi ancora: la bottiglietta di soia Kikkoman e il cerotto, gli scacchi Staunton e la mitra del vescovo, la forma (nomen omen) del Grana e del Parmigiano Reggiano e il chupa chups, ma anche il flacone del Vinavil, la spazzola a forma di violino, il comune vaso tronco-conico di terracotta, le «banali» Matrioske, lo stecco «a elica» del gelato e il lucchetto Yale, il biscotto Plasmon e l’affilamine Gedess 1944, fino alle pedine del Monopoli per chiudere - altre forme perfette (e, almeno in un caso, senza ombra di ironia) - con il tappo dello champagne e la supposta.

Un viaggio dentro la forma

Il contributo di Iacchetti, oltre che nella scelta, è nel commento dei singoli oggetti-progetti. Dando i crediti di invenzione e brevetto, dove ci sono (o sono noti), tralasciandoli dove sono ignoti: quasi che gli oggetti si siano creati e perfezionati da sé stessi. Ogni piccola scheda è l’occasione di un viaggio dentro la forma, e alla ricerca di significati ulteriori. Per dire: «La forma delle Pringles è nientepopodimeno che un paraboloide iperbolico. Se l’ergonomia è la scienza che studia l’interazione tra elementi e la funzione per cui questi vengono progettati, possiamo stabilire che le Pringles rappresentano al meglio il concetto. Non c’è nulla che si concili più precisamente con il palato del consumatore».

E ancora: «Ho sempre trovato la sagoma di questo piccolo abete perfetta nel restituire la sintetica idea di un abete frondoso. Sembra un disegno semplice, ma non lo è. Provare per credere e io ci ho provato alcuni anni fa, realizzando un simil-Arbre Magique (omaggio all’originale) per un evento legato al mondo del cioccolato». Il risultato fu «deludente».

Il celebre Arbre Magique è del 1952

Le biografie minime di Iacchetti (l’Arbre Magique è del 1952, su progetto di Julius Sämann, ma sfido a trovare uno «normale» che lo sappia), hanno sempre la doppia vista dell’utente (tutti) e l’occhio del designer (lui). Lo sguardo incantato del progettista si combina a quello divertito e brillante del fruitore, così che questi oggetti diventano di volta in volta protagonisti del suo vissuto quotidiano o dei suoi ricordi. Una dichiarazione d’amore e gratitudine a questi compagni familiari e gioiosi che con la loro perfetta semplicità hanno accompagnato nei decenni l’evoluzione delle abitudini di tutti noi.

È una maniera sottile per farci entrare dentro il modo in cui gli oggetti funzionano e ci affascinano, e perciò una piccola macchina del tempo, per oggetti che forse oggi tendono a scomparire, e questo sarebbe un altro capitolo da esplorare. In copertina, giusto per esemplificare, ecco la sfilata dei segnalini del Monopoli d’una volta: «Funghetto, vaso, candela, pera, mela, donnina, papera, fiasco. Io ho sempre scelto il fungo. In genere ci si affezionava al proprio segnaposto del Monopoli. A dire il vero a me piacciono ancora oggi. Gran parte del resto del mondo giocava con segnalini in metallo che lasciavano poco all’immaginazione: uno scarpone, un ditale, una carriola… Piccole e modeste riproduzioni tristemente verosimili. Invece le piccole icone in legno della versione italiana sono sintetiche e bellissime rappresentazioni dell’idea dell’oggetto. Dunque il concetto astratto di una mela, di un vaso di pianta grassa, di un anatroccolo».

Il segnaposto sintesi del nostro essere

Forme primordiali in cui sì, si manifesta l’assoluto: «D’altra parte il segnaposto è sintesi del nostro essere: lo scegliamo ed esso si sostituisce a noi, permettendoci di vivere una vita inventata tra imprevisti e probabilità». E questa, se mi permettete, è una notazione da scrittore. Una di quelle che molti scrittori di mestiere si sognano di scrivere; e non sono nemmeno dei compassi d’oro. Chapeau. (A proposito: che forma ha un cappello?)