Il commento

Il licenziamento del vecchio operaio

Le responsabilità etiche e sociali degli imprenditori e l'autunno caldo dell'economia
Prisca Dindo
10.09.2023 06:00

Gliel’hanno consegnata a mano il giorno prima delle vacanze dell’edilizia. Tre righe per dargli il ben servito dopo vent’anni di lavoro. A farlo star male più che l’incognita per il futuro, è stata la maniera con cui è stato cacciato. Non che l’operaio protagonista della nostra storia non abbia motivi per angosciarsi: è diventato padre da poco tempo e non è più giovanissimo. È un ottimo muratore, ma trovare un lavoro alla sua età non è per nulla facile. Tuttavia, a provocargli un continuo dolore che gli toglie il sonno è il ricordo di quella mattina, quando il direttore l’ha chiamato in ufficio dicendogli sorridente che doveva firmare il suo licenziamento in segno di ricevuta. Lui si aspettava come minimo che quella lettera di licenziamento – se tanto doveva essere – gliela consegnasse il titolare dell’impresa. Che gli dicesse due parole di conforto, tipo «mi dispiace tanto, il momento economico è difficile», o che gli desse quantomeno una pacca sulle spalle.

Invece non si è fatto vedere, era in vacanza in barca e ha incaricato il nuovo direttore di sbrigare la pratica. Come se dietro alle braccia, alle «unità di lavoro», non ci fossero uomini. Vent’anni cancellati come se nulla fosse. Farsi mettere alla porta come un signor Nessuno, no, non se lo sarebbe mai aspettato. Negli scorsi mesi, altri operai erano stati mandati a casa, a gruppetti o centellinandoli uno dopo l’altro. Ora lui si chiede se non c’era un piano dietro a quello stillicidio di partenze.

Nei vent’anni di attività ha contributo in modo importante alla crescita dell’impresa. Ha stretto i denti quando l’edilizia tirava e i cantieri aperti superavano le capacità della ditta, ma bisognava finire le case in tempo per evitare le penalità. Ha gioito con il datore di lavoro quando c’era da gioire. Non aveva mai avuto velleità di fare carriera, voleva soltanto lavorare per quel padrone che vent’anni prima l’aveva assunto e che ora lo scarica senza neppure guardarlo in faccia. In Ticino ci sono molte aziende virtuose. Impresari che conoscono quanto siano preziosi i dipendenti e che fanno di tutto per salvare il lavoro anche quando le acque sono agitate. Licenziare collaboratori fedeli e capaci dovrebbe essere l’extrema ratio. Soprattutto se il team è composto da pochi lavoratori che con il tempo si trasformano in una famiglia, come nel caso del nostro operaio. Anche di fronte al peggio, non si butta via come carta straccia un dipendente che ha servito fedelmente l’azienda per tanti anni. È un cattivo segnale per chi resta. «Non ci alziamo ogni mattina per fare soldi. Ci alziamo ogni mattina per raggiungere il giusto equilibrio tra profitti e impatto sociale. Non posso permettermi che ogni decisione sia basata solo su fattori economici, abbiamo dei valori da rispettare e per questo facciamo scelte di lungo termine affinché i nostri dipendenti e i nostri clienti siano fieri di noi e delle nostre battaglie»; ce lo insegna Howard Schultz, l’amministratore delegato di Starbucks, quella catena di successo che in pochi anni ha piazzato caffetterie in ogni angolo del pianeta. Nei giorni scorsi Marco Pellegrini, responsabile per il Sopraceneri dell’OCST, l’Organizzazione Cristiano Sociale ticinese, ha lanciato l’allarme dalle colonne del Corriere del Ticino: si rincorrono voci di tagli del personale, in particolare nella metallurgia, con un centinaio di posti a rischio soltanto nel Locarnese. L'appello del sindacalista è stato chiaro: «pensateci prima di licenziare», percorrete tutte le possibili alternative prima di procedere a tagli dolorosi. Senza mai dimenticare che ogni impresa porta su di sé grandi responsabilità etiche e sociali, anche quando purtroppo non c’è più nulla da fare.

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