Il personaggio

Il mio viaggio (neutrale) attorno al mondo

L'intervista a Bernardino Regazzoni, ambasciatore svizzero - da poco in pensione - che ha portato un po’ di Ticino ovunque sia stato
Mauro Spignesi
06.11.2022 13:00

Ha iniziato il suo lungo viaggio attorno al mondo - primo incarico ufficiale in Costa D’Avorio, ultimo a Pechino - nel 1988 e lo ha terminato quest’anno. Bernardino Regazzoni, l’ambasciatore svizzero che ha portato un po’ di Ticino ovunque sia stato, è da poco in pensione ed è tornato a vivere con la famiglia nella città dove è nato nel 1957, Lugano. Ma non ha smesso di studiare e osservare attentamente quanto accade a livello internazionale.

Ambasciatore, partiamo dall’ultima tappa del suo lungo viaggio professionale: Pechino. Come è stata l’esperienza in Cina?

«Dal punto di vista diplomatico, e nella sua globalità, è stata affascinante. Perché in Cina hai la possibilità di vivere in prima persona i cambiamenti e gli eventi di un grande Paese che poi hanno riflessi immediati a livello globale».

Lei è arrivato in piena pandemia, mentre in Occidente in tv si vedevano immagini di intere città chiuse. È stato difficile?

«Sono arrivato all’inizio del 2019. Dal 2020 è stato un periodo molto duro perché abbiamo vissuto appunto la pandemia in prima fila. Il Covid nella prima fase è stato affrontato un po’ come in Europa, con restrizioni e lockdown. Poi la variante Omicron ha scompaginato il gioco perché a quel punto (e ancora oggi) la Cina ha mantenuto misure molto rigide («tolleranza zero») per combattere il virus».

Vista da lontano, l’impressione è che in Cina non ci fossero grandi discussioni come da noi. Si chiudeva e basta. È davvero così?

«Anche pochi casi di positività, compresi gli asintomatici, sono un motivo sufficiente per chiudere un palazzo, un quartiere, una città. Il movimento interno è limitato. Per non parlare dei viaggi internazionali che oggi non arrivano al 5 per cento, da e per la Cina, rispetto a prima della pandemia. Oggi i comportamenti delle persone sono scanditi da «big-data», codici di salute che bisogna scannerizzare e dai test che vanno fatti in continuazione. Tutto questo ha conseguenze sia sulla vita quotidiana che sull’economia».

La Cina sta perdendo colpi, si legge ovunque. Si è davvero inceppata la crescita?

«Nel 2021 la Cina è cresciuta dell’8 per cento. Le previsioni di quest’anno, l’obiettivo dichiarato dal governo, era il 5.5 per cento. Invece la Banca mondiale recentemente ha indicato una crescita del 2.8 per cento. Ovvero 5 punti in meno rispetto all’anno scorso, che fuori dalla statistica vuol dire meno denaro da investire nel Paese. In parte questo è accaduto anche per l’approccio epidemiologico, con tanto «stop and go» che ha rallentato la produzione».

C’è stato anche un riflesso sociale?

«Un fenomeno di cui si parla poco, ma che il governo ha apertamente riconosciuto, è la disoccupazione giovanile, che nelle fasce tra 18 e 24 anni arriva anche al 20 per cento. Il Covid ha sottratto soldi per combattere questo fenomeno».

Da otto anni esiste un accordo di libero scambio Svizzera-Cina. Si può fare un primo bilancio?

«Iniziamo con il dire che l’accordo di libero scambio del 2014 è stato un successo. Lo testimoniano anche i numeri: quando è entrato in vigore il volume di scambi era di 18 miliardi di franchi; oggi siamo a quota 33 miliardi di franchi. Inoltre, è un accordo importante perché contiene disposizioni in difesa della proprietà intellettuale, aspetto delicatissimo. Poi, certo, come tutti gli accordi può essere migliorato, si può pensare di estenderne il campo di applicazione e, in parallelo, introdurre clausole relative al diritto del lavoro e ai diritti umani, che non è una richiesta astratta visto che una richiesta simile è stata avanzata all’Indonesia, risultata decisiva per il voto popolare».

In quel caso si chiedevano garanzie su una produzione sostenibile e rispettosa dei diritti dei lavoratori. Questo vale anche nel caso della Cina?

«Il consumatore oggi è informato, vuol saperne di più, vuole capire come è realizzato un prodotto importato. Nel caso della Cina abbiamo anche una delicata situazione sul fronte del rispetto dei diritti dell’uomo. Si parla molto della provincia occidentale dello Xinjiang.Il rapporto pubblicato dell’Alta commissaria dell’ONU per i diritti umani uscente, Michelle Bachelet, qualche minuto prima della fine del suo mandato credo sia un documento credibile e approfondito. Un documento che descrive una situazione oggettivamente preoccupante. La Cina è un importante partner economico, ma nel Paese si verificano violazioni gravi dei diritti dell’uomo».

Più di una organizzazione internazionale ha denunciato questa situazione. Come viene avvertita questa pressione in Cina?

«C’è un aspetto supplementare da spiegare. Ogni volta che si fa osservare alla Cina che non tutte le regole vengono rispettate, ci viene risposto che il benessere della popolazione è molto aumentato negli ultimi decenni. La carta delle Nazioni unite considera tuttavia diritti dell’uomo, sicurezza e sviluppo su un piano di parità. Questi tre pilastri hanno eguale importanza. La Cina introduce invece una gerarchia dicendo che lo sviluppo è possibile quando c’è sicurezza e i diritti dell’uomo quando c’è sviluppo. Il punto centrale quando parliamo di violazioni, sulla base degli indirizzi dell’Onu, è che esiste un sistema di valori universali e non relativi, legati al grado di sviluppo di un Paese».

Berna su questo fronte potrebbe fare di più?

«Il Consiglio federale nel 2021 ha adottato la «strategia Cina» che - in estrema sintesi - riconosce l’eguale importanza tra i nostri interessi economici e i valori della nostra società liberale e democratica; un aspetto non contraddice l’altro».

È rimasto sorpreso dalla posizione della Cina nei confronti di Vladimir Putin quando ha aggredito l’Ucraina?

«Storicamente Cina e Russia non sono mai stati Paesi amici. Anzi hanno rischiato di farsi la guerra alla fine degli anni ‘60. C’è ora però una oggettiva e forte convergenza di interessi: entrambi i Paesi vedono infatti gli Stati Uniti come il rivale numero uno. Durante la visita di Putin all’apertura dei giochi olimpici, i due Paesi hanno definito la loro relazione come «amicizia senza limiti», «solida come la roccia». La Cina si è ben guardata dall’adottare sanzioni internazionali dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, ma evita anche di aggirarle, ciò che provocherebbe pesanti sanzioni secondarie. Nel dialogo che ho avuto occasione di intrattenere con le autorità cinesi mi è stato detto che le responsabilità del conflitto vanno cercate altrove. Insomma, rivolgetevi agli Usa o alla Nato».

Però la Cina ultimamente si è smarcata da Putin. È solo una impressione?

«Io credo che in febbraio Putin pensasse di vincere facile e in fretta e lo abbia spiegato a Pechino. Ora sta perdendo e ciò può essere imbarazzante. La convergenza di interessi tra Cina e Russia è tuttavia duratura, quale che sia l’esito di questa guerra».

Lei è stato anche a Roma. Conosce profondamente l’Italia. Come si spiega che i nostri vicini di casa abbiano dato il benservito a un fuoriclasse come Mario Draghi per tornare alle elezioni?

«I governi sono eletti dagli italiani. Detto questo, l’Italia è una democrazia matura e ha istituzioni forti, temprate da prove molto dure e interamente vinte come la lotta al terrorismo o parzialmente, come la lotta contro la criminalità organizzata, con il sacrificio di Falcone e Borsellino. Poi al di là degli slogan in campagna elettorale, l’Italia resta uno dei pilastri storici dell’Unione europea».

Dunque, l’Italia non rischia?

«Mi fa sorridere sentir parlare all’estero dell’Italia come un Paese osservato speciale. C’è una nuova maggioranza, e un nuovo Governo, vedremo cosa saprà fare visto che è composta da tre figure forti (Meloni, Salvini, Berlusconi). C’è una certa curiosità su come Giorgia Meloni terrà a bada i suoi alleati».

Come sono i rapporti tra Roma e Berna?

«Come ambasciatore a Roma ho molto investito nel dialogo con l’Italia. Il recente Forum italo-svizzero che ha avuto luogo a Zurigo, ad esempio, è uno strumento importante per ricordarci la relazione che lega, non solo culturalmente ed economicamente, ma anche dal punto di vista umano, Svizzera e Italia. Questo al di là dei problemi che possono nascere tra vicini».

Lei ha rappresentato la Confederazione a Parigi. Perché Emmanuel Macron ha fallito nelle trattative con Putin?

«Macron ha provato a dialogare con un Putin che ha in testa la restaurazione dell’impero russo. È stato un tentativo a vuoto perché le condizioni per un dialogo reale non erano mature. Ma mantenere aperto il dialogo è sempre necessario. Bisogna continuare a parlare e bene ha fatto Ignazio Cassis ad incontrare il suo omologo russo Serghiei Lavrov a New York».

La Francia prima delle elezioni appariva un Paese diviso che faceva i conti con grandi tensioni.

«Ho vissuto l’ascesa di Emmanuel Macron, che avevo avuto occasione di incontrare giàprima che venisse eletto presidente. Seguendo le vicende della Francia mi ha colpito molto per la sua violenza il fenomeno dei «gilet gialli». Ma si fa un errore se si pensa che questo movimento sia solo un fenomeno francese. Esiste anche in America, ad esempio, e vede protagonista una classe di esclusi dai benefici dalla globalizzazione».

Ultimamente, soprattutto in relazione a certe decisioni del Consiglio federale rispetto alla guerra in Ucraina, si è parlato molto di neutralità. Ovunque lei sia andato è stato sempre accolto come il rappresentante di un Paese neutrale. Come ha spiegato questo «status» internazionale?

«La neutralità ha diversi livelli di lettura. C’è un nucleo giuridico, facile da spiegare: in caso di guerra il diritto della neutralità prevede che il Paese neutrale non sostenga militarmente in maniera diretta o indiretta, per esempio fornendo armi, nessuno dei belligeranti».

Il secondo livello?

«Il secondo livello dice che esistono vari modi per mettere in pratica la neutralità, che possono essere diversi secondo i tempi, la cosiddetta politica della neutralità. Ad esempio, uno può essere quello di mettere a disposizione delle parti i buoni uffici in modo da tenere aperti i canali».

Spesso si sente dire «… potrebbe farlo la Svizzera».

«Ecco, questo è molto bello perché ci viene riconosciuta una certa esperienza. Ma uscendo dai testi giuridici e andando al terzo livello di lettura, come cittadini svizzeri percepiamo spesso la neutralità come un valore identitario, un mito fondatore. E come tutti i miti è atemporale. Per questo quando si discute di neutralità bisogna sempre far precedere il dibattito da una domanda: di cosa stiamo parlando? Del nucleo giuridico, di quello politico o parliamo di un aspetto identitario?».

Stavolta, con le decisioni per l’Ucraina, quale sfaccettatura della neutralità abbiamo davanti?

«Le sanzioni adottate nel caso dell’aggressione della Russia contro l’Ucraina sono assolutamente compatibili tanto con il diritto che con la politica di neutralità. Se noi facciamo questa opera di spiegazione io credo che ci sia più possibilità di sviluppare un dibattito pacato che non mescoli affermazioni che nulla hanno a che fare con la neutralità».