Il Novecento secondo Giampiero Mughini
Formidabile, quel secolo! E ti credo. Se c’è un sismografo attentissimo, preciso, emozionato, appassionato e vibrante di cultura, devozione e comprensione (comprese le zone oscure, forse soprattutto quelle) come Giampiero Mughini a catalogarlo. Proprio questa, è la parola esatta: signori, intellettuali (del piffero e no), il «catalogo» è questo. O, almeno, è il suo, mi diranno gli impazienti e i bastiancontrari ad ogni costo. Forse. Ma non è così, invece: e per quanto possano essere memorie e fissazioni personali, e per quanto di un «rinnegato» (come lui stesso fu definito, senza dubbi, da ex compagni immalinconiti male; e in quella rispostaccia di Marco Bellocchio, uno che, al contrario, aveva persino ispirato una generazione dai «pugni in tasca» c’è tutto un veleno e una ideologia e un’energia che appare incredibilmente sprecata, con occhi postumi), le perle che Mughini ha raccolto e infilato per noi (per tutti noi) in una collana che sfida il tempo e conferma il Novecento in tutta la sua grandezza palese e occulta, e persino a volte nella sua dabbenaggine, nella sua raccolta, dicevo, ci siamo dentro tutti.
Fra altari e preghiere
Perché. Perché, in quella bella villa-scrigno-tempio personale di via Paolo Segneri a Roma, c’è la grande cultura - ovviamente quella dei libri, e ci mancherebbe, creature viventi di carta, immagini e parole ai quali Mughini ha innalzato altari e preghiere con rara e poco eguagliata maestria -, ci sono i creatori d’arte (e non si parla qui di pittori, non solo, certamente), dal ceramista Guido Gambone al grande (e ancora troppo poco conosciuto) Ico Parisi, da Mendini a Sottsass, da Tano D’Amico a, e volevo ben dire, Munari, c’è la fotografia provinciale epperciò universale di un Ghirri, c’è, insomma, non la sto a fare troppo lunga, la geografia sbilenca di un instancabile cercatore di pepite: e ovviamente non ci si può accontentare di riti e miti locali, di personaggi e movimenti identificabili, di storie e cimeli sfuggiti all’oblio per celia e per non morire, perché sono dimensioni, tutte, che si fondono e intersecano.
L’inizio, folgorante, serva a farlo capire: ed è la Bologna punk, ribelle, drogata, poetica e sfrontata di Freak Antoni e di Andrea Pazienza, ma anche di Scozzari e dei Valvoline, del Dams, di Celati, di Eco e delle radio libere, lacrimogeni e canzoni, «bistecche, giornaletti, l’università»: insomma, il mitico Settantasette (un anno «che meriterebbe un museo» a parte, magari per dimenticarlo, con molto altro ciarpame della Storia), che, con i Gaznevada e altri più ignorabili e ignorati gruppi, non fa solo il verso alla Londra con le teste crestate di Carnaby Street: no, è un microcosmo che interpreta il «sapore» di quegli anni molto meglio e molto più - e in questo Mughini è netto - delle vacue prescrizioni da libretto rosso tanto care ai nostri «cinesi» d’importazione. Il ballo scatenato e il frastuono (sessuale, filosofico, culturale) molto più che il disastrato ordine filosofico e politico in salsa comunista alla pechinese. Mughini è un detector infallibile di tragedie e non ha paura (né l’ha mai avuta) di sfidare convenzioni e convinzioni bislacche e farlocche: è lui, col suo gusto e con la sua capacità di selezionare, a dettare ciò che va salvato e ciò che va perso. Ciò che va salvato, perché va perso.
Dalla fucina pop alla Parigi erotica
Intendiamoci: qui, in queste pagine intense e lucenti, passano anche la New York di Andy Warhol e della Factory (una fucina pop che dà un esito artistico e musicale incredibile come i Velvet Underground che, con Nico, furono autori del celeberrimo album della banana; che si vestì certamente della più iconica copertina di vinile del Novecento, con tanto di versioni differenti, vietatissime, che naturalmente Mughini conserva), la Parigi ribelle, erotica o furente dei lettristi (e chi se li ricorda, questi?), ma c’è anche la Modena di Giuliano Della Casa, di Luigi Ghirri, di Franco Vaccari, appunto. Perché il «Muggenheim» (Bompiani, pagg. 288 + 32 di inserto fotografico), secondo la felice definizione di Pablo Echaurren, amico dell’autore, artista in proprio della parola e dell’immagine, che ha conteso a lungo a Mughini la fama di più grande collezionista di memorabilia futuriste (e, poi, il lutto: Mughini ha venduto i suoi libri futuristi e il catalogo argentato di Pontremoli resta una pietra miliare del settore, in fatto di chiarezza e dottrina sul tema), la sua villetta isolata che reca fuori una lapide che inorgoglisce l’abitante e che spiega in onore di quali autori è costruita, è un luogo di memorie tattili, olfattive, visive, cartacee e soprattutto sentimentali: un museo privato che definisce sì «quel che resta di una vita» ma ne testimonia anche il valore, l’accumulo, lo stratificarsi di unità di senso; senso che si aggiunge pian piano e restituisce, a noi lettori e visitatori scostanti, distratti o molto più semplicemente ignoranti, frammenti di un tempo, di persone, di uno spirito dell’epoca, che merita di essere conservato. O narrato: non è la stessa cosa - e coincide solo con Mughini, nella sua persona, nella sua vicenda.
Maddaiii e abooorrrro
Siamo al cuore della faccenda. Mughini ha riunito, come pochissimi intellettuali (e lui, sia chiaro, è uno dei maggiori in Italia, compreso il birignao che tanto piace sfottere ai suoi detrattori, occhialini colorati, giacche destrutturate, «maddaiii» e «abooorrrrro» televisivi compresi, che sono convinti, quanto erroneamente, di essere al suo livello e, spesso, poveretti loro, al di sopra, ma pensa te), il dono di una sapiente e avvincente scrittura (detto ancora tra parentesi: Mughini scrittore è della stoffa dei grandi autori che celebra) alla qualità del suo percepire ciò che va lasciato e ciò che va difeso e custodito di un’epoca.
Museo sentimentale, però; e ancora. Ché Mughini sentimentale lo è, eccome; perché in questi oggetti egli si trasfigura; e li vive con intensità - ciascuno un pezzo per omaggiare altri uomini e donne, altri libri, altre esperienze culturali. Non vorrei dire che questo è un catalogo di nostalgie, perché sarebbe giusto e sbagliato insieme: è, meglio, un regesto di sensazioni che si fissano in oggetti, libri, parole, immagini che testimoniano il nostro passaggio: il nostro. In effetti, questo è il «collezionismo»: un congelamento di un tempo o di una atmosfera, di una sensazione e di un senso, per rendere visibile il nostro transito. Ma è anche un lascito, una testimonianza e un memento mori: e Mughini lo lascia trapelare. Giunto alla solitudine (mitigata dagli affetti familiari più forti, una compagna, gli adorati cani, e i libri che occhieggiano dagli scaffali), ha vissuto mille esperienze, ha conosciuto artisti veri e immensi cialtroni, e a tutti ha chiesto, spesso non ottenendo, un lasciapassare per il futuro. Carta canta: e ciascuno produca la propria, che siano poster, foto, oggetti, opere e omissioni. Qui - e negli altri suoi libri: non starò a decantare le lodi delle sue carte, trofei che non esibisce come gli altri bibliofili solo per dire che li possiede ma libri che si traducono in letture vere, e tocchi, quasi che per osmosi le pagine potessero trasfondere sapienza e bellezza di chi le ha scritte - Mughini ha rastremato i cascami di un secolo purtroppo troppo breve.
Una esistenza ben spesa
Anzi: ha saputo riconoscere, proprio nei libri (soprattutto nei libri: mi si perdonerà la partigianeria rispetto al design, all’arte, al mobilio, tutto eccelso per carità), il veicolo d’elezione di una vita ben spesa. Eccolo, in un altro suo volume, precedente a questo, dove osserva con rammarico: «Solo che il libro di carta non siede più sul trono che spetta al sovrano del reame della comunicazione. Ahimè quanto remoto il tempo vissuto da quelli della mia generazione, quando la conoscenza dei fatti e le emozioni e le identità le catturavamo tutte sui libri che compravamo e leggevamo, innanzitutto perché un altro medium di cui giovarsi non c’era. Solo i libri di carta. Libri che ci costruivano e decostruivano. Libri di cui ciascuno poteva cambiarti la vita. Oggetti sacri, sì. Oggetti letali a sfogliarne le pagine una dopo l’altra e magari sottolinearle a matita. Ti colpivano al cuore, sì. Stimmate, da cui ciascuno di noi è stato lasciato diverso da ciascun altro. E resto di stucco quando incontro ventenni e trentenni che neppure sospettano che sia esistito quel mondo, e passano ore e ore a twittare e «postare», e soltanto di questo miele si nutrono e si incendiano».
Il crinale lungo il quale muove Mughini con il suo Guggenheim romano è un mondo che quei libri onora e riverisce e se aggiunge, e cito alla rinfusa, gli Enzo Mari, Ico Parisi, Gaetano Pesce o le foto, i fumetti e gli artisti a lui più cari, non lo fa altro che per ribadire che, collezionando il suo passato, Mughini, gli ha restituito significato. Lo ha «ordinato».
Errori e orrori compresi
Ce ne ricorderemo, di questo pianeta, ci suggerisce Mughini ad ogni pezzo del catalogo che propone ai nostri occhi, alle nostre menti, e ai nostri cuori. E anche grazie a lui, che ha passato la vita a setacciare, nelle grandi rive del tempo che scorre e porta via i granelli e i sassi che ci dicono ciò che ci siamo stati, ed è stato bello, e anche orribile, ma lo abbiamo voluto assaporare, capire, amare e trasmettere. Se c’è qualcuno che ha seguitato «virtute e canoscenza», declinandole secondo propri canoni, quello è Mughini.
Errori e orrori compresi: e sia definitiva la frase che scrive quando, ricordando di essere stato attivista di una storica rivista integralista di sinistra, divenuto giornalista, chiede un’intervista a uno dei fondatori di cotale periodico. Al che, l’(ex) venerato maestro, gli risponde che non parla a un giornalista borghese. «Mai avrei creduto che una tale puttanata potesse uscire dalla bocca di un essere umano». Così, papale papale, e basta con fesserie e fessi d’altri tempi, d’ogni tempo.
Non fatevi fregare dalle facilissime impressioni: il personaggio Mughini non coincide con l’intellettuale, che gli è superiore, e di molto, per eccentricità, gusto, qualità. Ci fosse un altro collezionista affamato e scaltro come lui, i libri di Mughini li metterebbe, tutti, nello scaffale nobile della libreria. Alla voce: maestri (in)compresi. Alla voce: Novecento che non passa.