Il commento

Il pensiero attuale di Don Milani

Se oggi si chiede a uno studente chi era don Lorenzo Milani, difficilmente si ottiene una risposta
Mauro Spignesi
28.05.2023 09:00

Eppure il messaggio civile e politico lasciato in eredità da questo scorbutico e scomodo priore di campagna, vissuto in esilio a Barbiana, villaggio di poche anime - una chiesetta, un cimitero, le case sparse tra campi e boschi nella valle del Mugello - ancora oggi fa discutere. E affascina non soltanto uomini della chiesa, come Papa Francesco che nel 2017 andò a pregare sulla sua tomba, o intellettuali del mondo cattolico, ma anche filosofi marxisti. Ieri, sabato, è stato celebrato il centenario della nascita di quest’uomo diventato un modello per diverse generazioni, compresa quella del Sessantotto.

Don Milani nel 1954 venne inviato a Barbiana a seguire la minuscola parrocchia e la scuola. Di quei tempi restano poche immagini, in bianco e nero, dove il sacerdote è insieme ai suoi allievi, bambini con le fossette sulle guance, figli di contadini e operai. Da loro partì don Milani per creare una sorta di laboratorio sociale per rendere tutti, senza differenze, «cittadini sovrani», per recuperare anche gli ultimi a un ruolo attivo nella realtà che ci circonda. Perché solo così, facendo maturare una coscienza morale, si riesce ad assicurare una sopravvivenza alle giovani generazioni. Il suo lascito è questo: la cultura, la conoscenza rendono liberi davvero. Solo chi studia, chi si informa, chi crea attraverso la conoscenza i propri strumenti critici, chi possiede la «cultura della parola» potrà interpretare i tempi in cui vive.

Ma per fare questo occorre far cadere tutte le barriere, a cominciare dall’istruzione, che deve essere aperta a tutti (allora non lo era, in Italia - ma non solo - c’erano persino le classi differenziali). E deve considerare non solo il merito, ma aiutare gli ultimi, chi è più in difficoltà, chi è fragile, chi viene da una famiglia difficile e non ingrana nella scuola. Uno dei suoi testi più letti, ancora oggi, è «Lettera a una professoressa», scritto insieme ai ragazzi di Barbiana, sull’esigenza di rivedere interamente il modo di fare scuola e di frequentarla perché da qui parte il riscatto sociale. Don Milani era un maestro «duro», non faceva sconti, e insegnò ai suoi ragazzi a diventare «padroni della parola», perché - scrisse partendo da una domanda- «quanti vocaboli possiedi? Al massimo 250. Il tuo padrone non ne possiede meno di 1.000. Questa è una delle ragioni per cui resta il padrone e tu rimani nelle condizioni in cui sei». Un concetto certamente legato a quegli anni, a una piccola realtà di montagna dove arrivava a malapena l’eco del «miracolo economico» del Dopoguerra.

Ma con un altro concetto Don Milani sottolineò questo pensiero. E per farlo usò due termini inglesi: «I care», ovvero ho a cuore, ci tengo, mi importa dell’altro. Che secondo lui doveva essere il nodo centrale della scuola, il ruolo stesso degli insegnanti e degli educatori, cioè quello non di portare a compimento un programma e premiare chi era riuscito a stare al passo con gli studi, ma valorizzare e tirare fuori il meglio di ogni ragazzo, le potenzialità nascoste. E questo, in tempi in cui la cultura nasce sui social e l’intelligenza artificiale diventa una sfida, è un pensiero attualissimo.

In questo articolo: