Il rischio di uno «shutdown» democratico

Il nuovo shutdown federale che da qualche giorno paralizza l’amministrazione statunitense può essere letto in due modi. Da un lato, è l’ennesima dimostrazione delle tensioni politiche che attraversano Washington.
Un Congresso diviso, una Presidenza polarizzante, e un sistema istituzionale che sembra procedere per blocchi e ricatti reciproci. Ma dall’altro lato, questo shutdown può essere visto anche come un segnale - paradossale, ma importante - che la democrazia americana non è del tutto morta. Anzi, che alcune delle sue istituzioni fondamentali stanno ancora cercando di esercitare il proprio ruolo di controllo e bilanciamento.
Donald Trump è tornato alla Casa Bianca con una maggioranza repubblicana in entrambe le Camere. Eppure, nonostante questa apparente unità politica, il bilancio federale non è stato approvato in tempo. Il motivo? Proprio il Senato, che pur a maggioranza repubblicana, non è riuscito ad approvare la legge di spesa. Questo perché, per far passare il bilancio serve una «supermaggioranza» di 60 voti su 100 per superare il cosiddetto filibuster, cioè la possibilità per l’opposizione di bloccare o ritardare indefinitamente il voto finale attraverso l’ostruzionismo procedurale. In altre parole, anche se i repubblicani detengono la maggioranza assoluta dei seggi (53 su 100), non possono approvare la legge da soli senza almeno una parte dei voti dell’opposizione, a meno che non riescano a cambiare le regole o ad aggirare l’ostruzionismo con espedienti procedurali – opzioni che al momento non sembrano politicamente percorribili.
Questa frattura può certo essere letta come una crisi di governo, ma racconta anche un’altra storia: quella di un Congresso che, pur sotto pressione, tenta ancora di esercitare la sua funzione più fondamentale - il controllo del bilancio.
Il cosiddetto power of the purse, il «potere del portafoglio», è il cuore storico del parlamentarismo. Fin dal XVIII secolo, è il principio che garantisce che nessun governo possa spendere denaro pubblico senza l’approvazione dei rappresentanti eletti. In tutte le democrazie moderne, il controllo del bilancio è la prerogativa che definisce l’autonomia del Parlamento rispetto all’esecutivo. E se è vero che negli ultimi decenni molte assemblee legislative hanno perso centralità, schiacciate tra l’urgenza delle crisi e il rafforzamento dei poteri esecutivi, la vicenda americana mostra che quel potere essenziale può ancora essere esercitato, anche a costo di paralizzare temporaneamente lo Stato.
Il prezzo politico ed economico dello shutdown è elevato: centinaia di migliaia di funzionari in congedo forzato o costretti a lavorare senza stipendio, servizi pubblici sospesi, disagi per milioni di cittadini. Ma il fatto che il Congresso (e persino una parte della maggioranza repubblicana) scelga di opporsi alle decisioni del Presidente in materia di spesa, anche in un sistema iper-presidenzializzato come quello degli Stati Uniti contemporanei, dimostra che gli equilibri istituzionali non sono completamente evaporati.
Lo shutdown non è un buon segnale sul funzionamento ordinario della democrazia americana. Ma è, almeno in parte, un segnale che la democrazia c’è ancora. Che esistono ancora margini per il dissenso interno, per la responsabilità parlamentare, per la difesa delle prerogative istituzionali. In un’epoca di crescente centralizzazione del potere e di personalizzazione della politica, che segnalano un rischio di deriva autoritaria, non è poco.