L'analisi

La guerra in un Ucraina è anche un laboratorio bellico

Armi vecchie e nuove, tensioni da Guerra Fredda, tattiche da primo conflitto mondiale, reclute mandate a morire, generali pedine di un gioco
Guido Olimpio
Guido Olimpio
15.01.2023 07:00

La crisi in Ucraina è una sintesi drammatica. Armi vecchie e nuove, tensioni da Guerra Fredda, tattiche da primo conflitto mondiale, reclute mandate a morire, generali pedine di un gioco. Ma anche laboratorio bellico per testare sistemi. Il racconto non può non partire dalle trincee sul fronte orientale.

Già così è un titolo sotto il quale si consuma una carneficina. Le località di Bakhmout e Soledar, obiettivo dei russi, si sono tramutate in una macchina infernale di distruzione, con scontri feroci in edifici trasformati in bunker, dentro buche diventate tombe. Per mesi c’è stato il duello da distante, con i grossi calibri: non vedevi l’avversario, sentivi solo il colpo dell’esplosione. Poi è arrivato il momento del corpo a corpo. Assalti di fanteria, ondate, lancio di granate, terreni arati dalle bombe. Un bilancio di vittime infinito.

Il fattore umano, in certi momenti, ha preso il sopravvento sulla tecnologia. Che pure ha cambiato il volto delle operazioni. Pensate ai droni. Nei primi mesi si parlava di quelli turchi, i TB2, usati dagli ucraini con efficacia. In autunno è arrivato il momento degli Shahed, i velivoli senza pilota iraniani acquistati da Mosca. Prodotti «economici», non troppo veloci, però sufficienti a fare danni sulle infrastrutture, sulle reti elettriche, insieme ai missili da crociera. All’interno racchiudono componenti acquistate in Occidente nonostante l’embargo, trasportano cariche esplosive e rappresentano il simbolo di un patto tra due regimi. L’Iran non ha esitato a dimostrare il suo appoggio totale ai piani del neo-zar, ha fatto più della Cina. Non è poco. Spera di incassare quando ne avrà bisogno sul piano diplomatico e bellico. I suoi droni sono nati sul campo ma non in Europa, bensì a migliaia di chilometri di distanza. I pasdaran li hanno «provati» contro sauditi ed Emirati, lungo le rotte del Golfo, parte della tragedia yemenita. Un test riuscito che ha permesso loro di esportarli. Per cercare di arginarli le truppe di Kiev sono costrette a sparare molto, usando in alcuni casi sistemi costosi o consumandone altri. Dispendio di risorse, frustrazione, ricerca di risposte, appelli agli alleati affinché forniscano contromisure.

La fallita marcia sulla capitale ucraina, con il serpentone di veicoli tormentato dalle incursioni della resistenza, le dozzine di mezzi inceneriti hanno indotto qualcuno a celebrare la «fine» dei tank. Le immagini dei rottami fumanti oppure le pesanti torrette divelte come fuscelli rappresentano il lato «debole» dei giganti. Per gli osservatori competenti molto dipende da come usi i carri armati. Impiegandoli sparpagliati, senza coordinamento con la fanteria, privi di coperture diventano bersagli relativamente facili. Specie se sull’altra barricata dispongono di anti-tank di ultima generazione, tipo i Javelin, così letali da essere ribattezzati «santi».

I corazzati contano ancora. Tanto è vero che sono al centro del dibattito tra i membri della coalizione pro-Ucraina. Alcuni - come Polonia, Gran Bretagna, Francia, Finlandia - sono in favore della fornitura a Kiev perché li ritengono indispensabili se si vuole permettere una difesa potente e poi la riconquista. Gli Usa sono molto vicini a dire sì, Parigi ne ha promessi alcuni (versione leggera) mentre la Germania ha puntato i piedi anche se il suo rifiuto a volte si annacqua. Gli esperti fanno il parallelo con i lanciarazzi Himars: quando sono arrivati c’era chi aveva sottovalutato il loro impatto, giudizio rovesciato dopo che hanno aperto vuoti spaventosi nelle retrovie degli occupanti grazie alla precisione - resa possibile dalla ricognizione e dall’intelligence - e al raggio di 80 chilometri. Infatti Zelensky vorrebbe avere ordigni che arrivano fino a 150 chilometri, proprio per destabilizzare la logistica.

Uno di questi bombardamenti ha distrutto la caserma degli invasori a Makiivka, causando centinaia di morti. Episodio di una serie, evento che probabilmente ha accelerato il cambio di comando nello schieramento russo, altra costante dell’operazione speciale adesso guidata dal Capo di Stato Maggiore Gerasimov. Siluramenti decisi da Vladimir Putin alla continua ricerca di una svolta, in pressing sulla Bielorussia perché intervenga direttamente. Gli alti ufficiali sono usati per schermare la follia di una mossa innescata alla fine di febbraio di un anno fa. Alla vigilia pochi credevano all’invasione, pensate a dove siamo oggi.

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