Il reportage

«La nostra vita nel tunnel»

Chi sono i minatori della seconda canna del Gottardo? Come ci sono finiti, e perché uscirne non è facile?
Carmelo Genoese, operaio, al balcone della sua camera all'ex albergo Alpina di Airolo ©Chiara Zocchetti
Davide Illarietti
04.06.2023 06:00

Marcelino, Fabio, Carmelo e Bernhard hanno fatto viaggi diversi per arrivare ad Airolo e infilarsi ogni giorno in un cunicolo, a scavare il cuore della montagna, ma le loro vite sono riassumibili nello stesso numero: 727354. Lo pronunciano con automatismo, come fosse un «pin» o la combinazione di una cassaforte. È la prima cosa da memorizzare sul cantiere del Gottardo. Sette giorni di lavoro, due di riposo, sette di lavoro, tre di riposo, cinque di lavoro, quattro di riposo. Poi si ricomincia. Anni di fatica.

Lavori alla seconda canna. © Keystone
Lavori alla seconda canna. © Keystone

Il cantiere della seconda canna tra Airolo e Göschenen è iniziato a settembre scorso, ad agosto raggiungerà il primo traguardo. Per undici mesi ottanta lavoratori hanno fatto funzionare senza sosta una fresa gigante divisi in quattro squadre e tre turni. L'impresa lascerà una traccia lunga 5 kilometri nella montagna, mentre l’impatto nelle esistenze di Marcelino, Carmelo, Fabio e Bernhard è più difficile da misurare. Come anche nella comunità di Airolo. L’unico modo è andare sul posto e controllare.

Dentro la montagna

Sveglia alle 5.30 di mattina. Marcelino De Castro è a capo di una squadra di dieci operai e li aspetta sul pullman che dall'ex albergo Alpina li porta nel tunnel. Fuori non c'è luce e nemmeno dentro. Avanzano per 3.466 metri nella roccia fino alla fresa. Marcelino conosce ogni palmo e ogni metro lo avvicina a suo padre. È figlio di un minatore di Coimbra in Portogallo, ma voleva ottenere di più del genitore. «Ha fatto tante rinunce e una vita di fatiche. Tornava a casa tutte le sere distrutto» ricorda il 38.enne. Lui ci ha provato a fare altro, ma come barista o grafico guadagnava 300 o 400 euro al mese e a soli 19 anni - grazie all’«aggancio» di un conoscente in Svizzera - ha preso la strada che lo ha portato, ora, davanti a una parete di granito illuminata da luci elettriche. Sono le 6.00, comincia il lavoro.

Dalla neve alla polvere

La squadra di Marcelino oggi si occupa della manutenzione della macchina. Nell'era degli algoritmi intelligenti e degli articoli che si scrivono da soli, uno dei lavori più pericolosi e pesanti è ancora affidato agli esseri umani, come ai tempi dei Faraoni. Fabio Padellini, 42 anni, smonta con una pistola i rulli consumati dalla sera prima e li sposta con un paranco. Dieci in tutto, pesano 190 kg l’uno. L’odore di grasso e metallo gli impregna i vestiti.

Fabio Padellini nella sua camera. © CdT/Chiara Zocchetti
Fabio Padellini nella sua camera. © CdT/Chiara Zocchetti

In una vita precedente Padellini è stato maestro di sci in Valtellina e la montagna la vedeva solo dall’alto, preferibilmente bianca. «Ma per sbarcare il lunario dovevo fare anche il muratore fino alle 9 di sera» precisa. Un giorno nella Val Furva, dove è nato è cresciuto, è arrivato un reclutatore in cerca di operai per un cantiere in Norvegia. «Mi è giunta la voce, ho accettato». Da lì è entrato nel «tunnel» dei cantieri - Oslo, Brennero, Albula, Zernez - e non ne è più uscito. «Non è una cosa tanto facile» prova a spiegare.

Figli d’arte

Anche lui è figlio d’arte, racconta mentre si cambia la tuta arancione nella struttura di container dove dorme. «Vedevo mio padre due volte l’anno, ha fatto il minatore in Africa, a Panama, in Pakistan». La stanza spoglia (saranno otto metri quadri) è identica ad altre trenta che diventeranno duecento al picco del cantiere, ma è probabilmente un lusso rispetto a quelle in cui dormiva suo padre. «E a differenza di lui io torno dalla famiglia ogni weekend» dice consolandosi.

Chi augurerebbe ai figli di fare i minatori, del resto? Fabio ne ha due in Valtellina (di due e un anno), Marcelino uno in Vallese (di dodici). Anche Carmelo Genoese ha due figli (10 e 2 anni) ma molto più lontani: vivono con sua moglie in Calabria. «Ogni volta è una tragedia, non vogliono lasciarmi partire» racconta mentre beve un caffè nella mensa a fine turno. Gli altri annuiscono. Sanno cosa intende.

Marcelino De Castro. © CdT/Chiara Zocchetti
Marcelino De Castro. © CdT/Chiara Zocchetti

Lontano dal cuore

La distanza dalle famiglie è un aspetto ancor più faticoso del lavoro in sè: su questo i lavoratori concordano. La questione dei turni è un problema conseguente. «Mi servono almeno tre giorni liberi di fila per tornare a casa» spiega Carmelo. Per Reggio Calabria ci vogliono due ore di aereo da Malpensa. Ha prenotato i biglietti fino ad agosto. I weekend in cui non riesce a partire (i giorni 7-2) li passa a dormire nella sua stanza dell’ex albergo Alpina, o a fumare sul balconcino da cui si vedono gli impianti sciistici.

Fuori dal mondo

Il contesto non fornisce molti svaghi. Se gli si nomina Airolo, Carmelo fa uno sguardo vuoto e sembra rivedere il suo orto in Calabria, gli animali («galline, agnelli, maiali») e i salumi preparati in casa. «Quando torno giù ho sempre un sacco di lavoro da fare sul mio terreno» spiega. «Qui al massimo ci scappa una bevuta o una grigliata con i colleghi».

Bernhard Zurdell. © CdT/Chiara Zocchetti
Bernhard Zurdell. © CdT/Chiara Zocchetti

La sensazione di essere «fuori dal mondo» accomuna un po’ tutta la squadra, i confronti con altri cantieri vissuti in passato a Zurigo, Ginevra o persino Lugano (il Ceneri, la galleria Vedeggio-Cassarate) sono impietosi. Ma c’è anche chi è di parere diverso. Bernhard Zurdell è austriaco, viene dalle montagne del Vorarlberg ed è abituato alla solitudine. A 52 anni ne ha trascorsi 24 nei tunnel di cui 14 in Svizzera, non ha moglie né figli. «Non potrei mai fare questa vita altrimenti» dice. E non gli dispiace. «Qui il paesaggio è come dalle mie parti, mi sento a casa». Nel tempo libero fa lunghe camminate o giri in mountain-bike. Ma non ha imparato una parola di italiano.

Un mondo a parte

Integrarsi per gli stranieri non è facile con il sistema 727354. O con qualsiasi altro sistema. Sulle 110 maestranze attuali i permessi B e C sono la maggioranza, mentre i cittadini svizzeri sono solo 11 e 50 i residenti in Ticino. I sindacati seguono da vicino il cantiere. Il tasto più dolente è proprio quello della turnistica, conferma Gianluca Bianchi di Unia. «Le famiglie lontane e le difficoltà a raggiungerle sono un tema importante in cantieri come questo, e non è sempre facile incastrare le esigenze di tutti».

Finito il pranzo, gli operai si ritirano per una doccia in camera e per il pisolino pomeridiano. Sul cantiere non si può arrivare stanchi: è anche una questione di sicurezza. Almeno sul lato ticinese della montagna «l’azienda appaltatrice dei lavori sta dimostrando una forte sensibilità al tema» continua Bianchi. E le occasioni di metterle alla prova non mancano. A inizio aprile c’è stato un allarme per una fuoriuscita di gas dalla roccia. Il cantiere è stato evacuato e i lavori si sono fermati per due giorni, per consentire gli accertamenti.

La legge del tunnel

In seguito si è rivelato un falso allarme: un difetto dei macchinari in seguito corretto, spiegano dalla committenza. Ma la guardia rimane alta. L’Ufficio federale delle strade (USTRA) ha appaltato lo scavo della galleria principale e del cunicolo di accesso sud (dove lavora la squadra di De Castro) a un consorzio capitanato dalla bernese Marti Tunnel. A pieno regime il cantiere occuperà 200 persone, e coordinarle dentro e fuori il cantiere richiede uno sforzo non da poco. Ma la gestione della turnistica «non risulta più delicata rispetto ad altri cantieri paragonabili» spiegano dall’USTRA. «Le imprese sono tenute a rispettare la legge sul lavoro e la turnistica viene definita e gestita previo accordo con gli organi di controllo preposti. In caso di divergenze si cerca sempre di trovare un compromesso». Oltre alla legge federale sul lavoro c’è poi la legge dei «tunnel» a cui non si sfugge: finché non si vede la luce, non si è mai davvero fuori. Gli operai di Airolo lo sanno bene.

Verso casa

Economicamente ne vale la pena? I quattro lavoratori intervistati sono convinti di sì. Dalle viscere della terra gli operai di Airolo tirano fuori stipendi da 5 .500 a 10 mila franchi al mese. Sul posto spendono una piccola parte, il resto lo accantonano o lo inviano alle famiglie. Due di loro stanno ristrutturando casa. «È una vita di sacrifici - rissumono - ma non possiamo mollare».

All’ora di cena gli operai si ritrovano nella mensa dell’ex albergo Alpina. A volte restano fino a tardi a cantare e bere qualcosa, come è successo ieri, ma oggi non è aria: tutti a letto per le 21.00, le 22.00 al massimo. Domani si ricomincia alla stessa ora. Gli svaghi possono attendere, gli articoli di giornale vanno e vengono. Le gallerie restano per sempre.

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