La paziente tela di pace di Papa Leone

In tempi di disordine mondiale e Terza Guerra Mondiale a pezzetti, secondo la definizione di papa Francesco, in cui le superpotenze parlano con i missili e non con i mediatori, un attore silenzioso ma antico si riaffaccia sulla scena internazionale: la Santa Sede. Papa Leone IV, come già fece il suo predecessore, non si limita alle invocazioni rituali durante l’Angelus.
Il suo messaggio di pace si traduce in azione diplomatica, attraverso una rete planetaria che non ha eguali: quella delle nunziature apostoliche. È un’organizzazione che risale ai secoli della Controriforma, perfezionata nei secoli per proteggere i cristiani in terre ostili, ma che oggi si comporta come un vero e proprio servizio estero parallelo, capace di agire là dove gli ambasciatori degli Stati faticano ad arrivare.
Poi ci sono le missioni speciali. I casi recenti parlano da soli. Il cardinale Matteo Zuppi ha attraversato i confini della guerra in Ucraina per offrire canali di comunicazione, missioni umanitarie e un barlume di tregua. Il cardinale Konrad Krajewski ha rischiato la pelle per portare aiuti dove le bombe parlano più forte della diplomazia. Ma il vero salto di scala è avvenuto quando Leone ha proposto di ospitare a Roma un vertice di pace tra Mosca e Kiev. Dopo un colloquio diretto con Volodymyr Zelensky e il vicepresidente americano J.D. Vance, la proposta è sul tavolo. Zelensky è favorevole, Washington anche. La risposta del Cremlino - anche se Lavrov ha definito irrealistico tenere i negoziati in Vaticano - resta ambigua, appesa all’asse incerto con il patriarca ortodosso Kirill, ma intanto si è rimesso al centro del tavolo negoziale.
Il punto è proprio questo: la Santa Sede, che pure non ha divisioni né armi, è tornata a contare nella geopolitica. Perché? Le ragioni sono molteplici. La Chiesa cattolica è una potenza morale, culturale, spirituale - e perfino diplomatica. Leone, il nuovo Papa con passaporto americano, ha usato la parola «pace» dieci volte nel suo primo discorso. Non è solo retorica: è un programma politico. E non a caso la sua biografia ha suscitato simpatia anche in ambienti trumpiani, che pure sono storicamente diffidenti verso le istituzioni multilaterali. Una convergenza d’interessi, una sintonia e un’opportunità in nome della comune cittadinanza americana? Certamente. Ma anche un’occasione.
Il ruolo di mediatore della Chiesa cattolica non nasce oggi. Leone XIII, pontefice colto e politicamente raffinato, risolse nel 1885 una crisi fra la Prussia di Bismarck e la Spagna per la sovranità sulle Isole Caroline. Fu una mediazione diplomatica impeccabile, che evitò uno scontro tra imperi coloniali. Nel Novecento ci fu Giovanni Paolo II. Nella crisi tra Cile e Argentina sul Canale di Beagle, due dittature sudamericane stavano per scatenare una guerra. Papa Luciani, il Papa dei 33 giorni, fece in tempo a inviare una paterna esortazione. Poi fu il successore Karol Wojtyla a prendere in mano il dossier. Il risultato arrivò nel 1984, con la firma del trattato di pace in Vaticano. Anche nella crisi dei missili di Cuba nel 1962, la Santa Sede giocò un ruolo sotterraneo ma decisivo, grazie all’influenza di Giovanni XXIII e dei suoi inviati speciali su Kennedy e Krusciov.
L’idea di un Vaticano protagonista nei negoziati tra Ucraina e Russia non è affatto una forzatura o una novità assoluta. È la memoria storica che si riaffaccia nel momento in cui le grandi potenze sembrano aver perso la bussola morale. Mentre ONU e G20 arrancano, il papato con al sua credibilità morale si muove con discrezione e un imperativo evangelico: la pace non si impone, si costruisce.