Tradizioni

La rivincita dello champagne «dei poveri»

La produzione di gazzose (al mandarino e non solo) in Ticino è raddoppiata – Ma passare il testimone per i gasusàt rimane difficile
© Chiara Zocchetti
Davide Illarietti
10.09.2023 17:45

C’era un «gasusàt» in ogni paese e a Bellinzona erano ben quattro, quando Franco Carugati è entrato come apprendista nella ditta in via Guisan 3, a pochi metri da Piazza del Sole. Era il 1966 e lui aveva 17 anni. Sessant’anni dopo la storica fabbrica è ancora al suo posto e anche Carugati. Ad andare in pensione non ci pensa neppure. «Con il mio lavoro mi diverto ancora» dice, mentre mostra il funzionamento di un tappo a forma di biglia di vetro. «Si spinge in giù con il dito, o una cannuccia, ed è fatta». A lavarle e imbottigliarle ora è una macchina moderna - sforna 4mila bottiglie in un’ora - ma il 74enne ricorda ancora quando il processo era eseguito a mano. «Da anziani, i ricordi di gioventù sono più nitidi del presente» osserva.

La fine di un’epoca

Carugati è l’ultimo proprietario della fabbrica di gazzose Coldesina - «era il cognome della mia bisnonna» - la più antica del Ticino e la più longeva: fondata nel 1885, è da cinque generazioni a gestione familiare e potrebbe non arrivare alla sesta. Molto dipenderà dalle scelte di funzionario del Cantone che si occupa di tutt’altro - «ha preferito seguire un percorso diverso, finanziario» - e con la fabbrica finora non ha avuto a che fare: appunto il figlio di Carugati. Il vento del mercato soffia in una direzione precisa. La fabbrica è in posizione centrale, in un comparto-chiave per la Nuova Bellinzona (a pochi passi dalle Officine, i prezzi si aggirano sui 1.500 franchi a metro quadro) e il valore immobiliare già oggi supera quello dell’attività produttiva svolta al suo interno.

«Se uno dovesse guardare al soldo, i conti sono presto fatti» tira corto il «gasusàt» mentre racconta - tra le casse impignate e i nastri trasportatori - la fabbrica che fu, una storia lunga come quella dell’industria ticinese. Fino alla prima metà del ‘900 la vendita di bibite gassate nella Svizzera italiana - come in tutto l’arco insubrico - era un’attività accessoria per decine di piccoli produttori. Gli antenati di Carugati erano commercianti di bestiame, i concorrenti erano droghieri o ristoratori che arrotondavano imbottigliando acqua aromatizzata. Lo chiamavano lo champagne dei poveri, perché «quando lo aprivi faceva il botto» ricorda Carugati ridacchiando.

Chi chiude e chi apre

In realtà neanche i poveri potevano permetterselo solo di rado. Una cassa di bottiglie nel 1966 costava 6.90 franchi - la memoria di Carugati è infallibile - l’equivalente di una giornata di lavoro di un operaio. Colpa principalmente del vetro, che ancora oggi incide sui prezzi di vendita in una misura del 30 per cento. Ma a decretare il declino dei consumi nel secondo Dopoguerra non furono tanto i prezzi quanto l’arrivo delle bevande americane. Coca Cola, Fanta, Pepsi, simboli di un nuovo stile di vita e del consumismo «gasato» dalle multinazionali d’oltre Oceano. Da una trentina che erano negli anni ‘70, i produttori ticinesi sono scesi a 9 nei primi anni duemila. Attualmente sono 6, per lo più di piccole dimensioni: la Coldesina è una delle più grandi (8 dipendenti) e l’ultima a chiudere è stata la Sciarini di Vira Gambarogno a dicembre 2018, dopo 124 anni di vita.

A pochi chilometri dalla fabbrica di Bellinzona, Luca Bianda fa i conti degli ordinativi tra una «call» e l’altra. Sbriga le ultime incombenze nel suo ufficio prima di partire per le vacanze, dopo un’estate di duro lavoro. Luglio e agosto sono i mesi di punta per le bevande fresche, la cui domanda segue le stagioni turistiche e forse anche un po’ il surriscaldamento globale. Di sicuro la Gazzose Ticinesi Sa di Personico è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni. Venduta nel 2008 dagli storici proprietari, l’azienda è ripartita con tre dipendenti fino ad arrivare ai 28 attuali.

Il «gasusàt» imprenditore

L’artefice del «miracolo» è un nuovo tipo di gasusàt-imprenditore. Bianda viene da un altro settore: farmacista del Locarnese, si è appassionato dapprima agli aromi - si definisce «un aromatista principiante» - e si è buttato «in questa follia» dopo aver visitato la fabbrica di gazzose e incontrato i successori della famiglia Cantoni, che la gestivano dal 1890 non senza difficoltà. «Mi dissero che non avevano a chi passare il testimone, ci ho pensato su. Sapevo che non era un’impresa facile».

Per rilanciare la fabbrica occorreva rilanciare prima il prodotto in sé e la sua immagine, Bianda lo ha capito fin da subito. «I giovani non bevevano gazzosa da anni, i miei figli e nipoti la conoscevano a malapena» ricorda. «Era diventato qualcosa di sorpassato». Dopo alcune riflessioni il farmacista ha colto la sfida e da subito ha puntato in alto. Letteralmente, oltre le montagne sopra Personico. «Il Ticino è sempre stato il mercato storico delle gazzose ma con il 5 per cento della popolazione svizzera non è possibile mantenere una produzione di medie dimensioni». Per arrivare oltre Gottardo Bianda ha lavorato di pubblicità e contatti con la grande distribuzione. Dopo lunghi sforzi i risultati sono arrivati.

Prodotto da esportazione

Oggi la gazzosa - quella al mandarino in primis - è conosciuta a livello nazionale come una specialità della Sonnenstube. La produzione in Ticino è raddoppiata, passando da circa 3 milioni di bottiglie all’anno nel 2003 a 5-6 milioni. Circa il 70 per cento vengono «esportate» in Svizzera interna, nei supermercati ma anche in negozi specializzati e locali che puntano sui prodotti tipici. «Effettivamente c’è stato un cambiamento e ce ne siamo accorti tutti» conferma Carugati. «I consumatori hanno capito finalmente che i prodotti delle grandi multinazionali sono slegati del territorio, vogliono consumare qualcosa che sanno da dove viene».

Questo vale anche per le nuove generazioni. Bianda ricorda di avere fatto un piccolo «sondaggio» tra figli e nipoti, prima di lanciarsi nell’avventura spumeggiante. «I figli sapevano cosa era una gazzosa, ma i nipoti quasi per niente, e né gli uni né gli altri la consumavano». A cambiare le cose è stato un grande lavoro di marketing a livello locale, senz’altro: ma anche i nuovi gusti del mercato e la sensibilità dei consumatori ha giocato un ruolo. «Se parli ai giovani di oggi di Coca-Cola o Nestlè, si inalberano subito» osserva Carugati. «Si è tornato a respirare un po’ di idealismo, per fortuna».

Anche Carugati si definisce un’idealista. Se la Nestlè si offrisse di comprare la sua ditta, adesso sa benissimo cosa risponderebbe. «No grazie». Le prossime generazioni dovranno trovare la loro risposta.

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