Diplomazia

La vita nomade di Mirko Giulietti

Da Lugano è partita una carriera che l'ha portato a diventare ambasciatore e capo della Divisione Americhe del DFAE
Marco Ortelli
19.06.2022 06:00

«La Divisione Americhe è responsabile delle relazioni bilaterali con i 35 Stati del continente americano». Estrapoliamo questa informazione dal sito dell’Amministrazione federale. Noi ne abbiamo cercate altre, intrattenendoci con Mirko Giulietti, infanzia e giovinezza a Lugano, studi a Ginevra e Zurigo, esperienze lavorative al CICR e all’OSCE, dal 1999 alle dipendenze del Dipartimento federale degli affari esteri e dal 2020 capo della Divisione Americhe con sede a Berna. Uno sguardo panoramico, con una persona che ne ha… viste di tutti i colori, dai prominenti come il presidente USA Joe Biden in occasione del vertice con Vladimir Putin del giugno 2021 a Ginevra, ai profughi in Afghanistan, ai carcerati in Ruanda, ai ragazzi di strada a El Salvador.

Per cominciare, cosa fa l’ambasciatore capo della Divisione Americhe?
«Il capo della Divisione Americhe sopraintende il lavoro di 17 Ambasciate e di 8 Consolati generali. È responsabile dell’elaborazione e della messa in atto della Strategia Americhe, documento del Consiglio federale che delinea le priorità di politica estera per il continente americano fino al 2025. Un programma elaborato e da attuare sotto la mia supervisione».

Perché proprio lei a capo di questa Divisione?
«Per due motivi. Uno di ordine pratico. Si era liberato il posto a Berna in concomitanza con la mia partenza dalla Costa Rica nel 2020. In secondo luogo, il mio profilo calzava con il ruolo. Durante gli studi, dapprima a Ginevra e in seguito a Zurigo, avevo trascorso un semestre in Canada, mentre a New York ho seguito la formazione diplomatica. A ciò si aggiungono anche le mie attività professionali in Messico, Costa Rica e Colombia che mi hanno permesso di acquisire una relativa conoscenza del continente americano nel suo complesso. Dopo il consueto processo di selezione interna sono dunque stato nominato».

Veniamo allora ai contatti, per un ventennio tratto peculiare della sua attività di ambasciatore.
«È uno dei privilegi di questo mestiere. Quando arrivi in un Paese - "Ah el Embajador!" esclamano con ammirazione in America Latina - si aprono parecchie porte. Si ha l’opportunità di incontrare un ampio ventaglio di persone capaci e intelligenti, élite intellettuali, economiche, autorità di tutti i livelli; ma anche operatori sociali, rappresentanti di organizzazione della società civile, artisti».

Non solo persone altolocate, però.
«In Salvador, ad esempio, sostenevamo dei programmi extrascolastici in un quartiere malfamato della capitale, affinché i giovani rimanessero all’interno del settore scolastico praticando attività sportive, teatrali, musicali e non finissero sulla strada controllata dalle Maras (gruppi di criminalità organizzata)».

Ci sono personaggi o situazioni che l’hanno colpita? Alludiamo anche all’incontro a Ginevra con la delegazione USA capitanata da Joe Biden...
«Quale capo della Divisione Americhe ero presente a Ginevra, ma non sono tanto gli aspetti formali a colpirmi, quanto quelli personali. Una delle situazioni più toccanti è stata l’incontro tra un padre e un figlio in Ruanda dopo quattro anni che non si vedevano. Si sono stretti semplicemente la mano. Vedevi che c’era una gioia immensa, ma non riuscivano ad andare oltre quella stretta di mano. In Ruanda, generalizzando, i sentimenti interpersonali non si possono mostrare in pubblico. Un altro personaggio che mi ha impressionato è il sacerdote messicano Alejandro Solalinde, che nel sud del Messico accoglie migranti (ogni anno in Messico 20 mila migranti spariscono nel nulla, sintomatico il titolo di un suo libro I narcos mi vogliono morto, ndr). Una personalità irradiante di ottimismo e calore umano».

Ammirazione. Prestigio. E poi, «ambasciator non porta pena». Lei se ne porta dietro qualcuna?
«Ogni tanto penso a come sarebbero i miei tre figli se avessimo vissuto tutto il tempo in Svizzera. Quali sarebbero le loro relazioni sociali, quali le loro preoccupazioni, la loro visione del mondo. Il mio lavoro è appassionante, permette contatti interessanti e stimolanti e ti obbliga a una grande flessibilità mentale, ma i trasferimenti per la famiglia sono più difficili: nuove scuole, nuove amicizie, nuove regole sociali. Il cambio è ancora più radicale per loro. Io in fin dei conti conosco il mio lavoro e le mie mansioni».

La sua vita avrebbe però potuto prendere un altro corso, pensando che da ragazzo, sotto il cielo del Luganese...
«In effetti il mio grande sogno da bambino è stato quello di diventare pilota. Conoscevo tutti i modelli d’aerei dell’aviazione civile, la flotta delle compagnie aeree, gli scali e le destinazioni di Swissair. Da adolescente la miopia ha però fatto svanire quel sogno: un giovane pilota miope non incute una grande fiducia ai passeggeri…».

All’imbrunire di questa intervista, il domandone che ognuno almeno una volta si pone : «In che mondo viviamo? È forse tutta colpa delle multinazionali»?
«Fino a une decina d’anni fa avrei detto che il mondo è sulla buona strada. Adesso, forse perché padre di due ventenni e di un’adolescente, direi che affideremo loro un mondo molto difficile da gestire. I nostri figli dovranno essere molto più flessibili rispetto a noi e ai figli delle generazioni precedenti. Dovranno poter essere in grado di riorientarsi professionalmente più velocemente, dovranno reagire ai cambiamenti e trovare soluzioni in modo molto più rapido. La loro generazione è forse la prima dal dopoguerra in Europa che vivrà condizioni più difficili di quella che l’ha preceduta. Ma non attribuirei colpe, e ancor meno a una categoria in particolare. Tutti contribuiamo, chi più chi meno, a fare bene o male. Lo stesso dicasi per le multinazionali da lei accennate. Alcune fanno bene, interpretano il loro ruolo come attori sociali oltre che meramente economici; altre sono solo alla ricerca di un profitto immediato senza badare a conseguenze ambientali o sociali. Ciò vale tuttavia anche per altri gruppi sociali. Ho incontrato in tutti gli ambienti e circoli gente seria che crede nel proprio lavoro e che porta qualcosa di positivo alla società».

Su un pianeta in cui sono in corso 59 guerre, cosa può fare la diplomazia internazionale?
«La diplomazia non è solo l’arte del dialogo, ma è ricerca di soluzioni a problemi concreti. Certo, vi è quella che fa notizia - le grandi conferenze, i grandi accordi, le riunioni ad alto livello - e c’è anche quella invisibile, che ha un impatto quotidiano concreto sulle nostre vite, che contribuisce agli scambi e all’integrazione. Pensiamo solo alle vacanze: attraversiamo frontiere e dobbiamo mostrare documenti che devono essere riconosciuti. Magari prendiamo anche un aereo: vi sono degli accordi sul trasporto aereo che permettono di sorvolare un territorio e di atterrarci; sono state negoziate le frequenze radio per navigare, le approvazioni dei certificati vaccinali (anche molto prima della COVID) o ancora le misure di sicurezza dell’aviazione civile o del trasporto terrestre. Questi sono solo alcuni degli aspetti della nostra vita quotidiana che sono possibili e agevolati grazie alla diplomazia, ma potrei aggiungerne facilmente altre decine».

Un ambasciatore. Una vita scandita da quadrienni. Quasi nomadica. Oggi a Berna, dal 2024 chissà.
«La famiglia è al contempo bussola e àncora. Bussola perché si cerca di favorire quelle destinazioni (destini?) che rispondano in primo luogo ai bisogni di chi mi accompagna. L’àncora perché la famiglia è la vera casa, indipendentemente dalla città e dal contesto nel quale ti trovi e lavori. Per il prossimo trasloco, saremo però solo mia moglie e io…».