Lavoro e dignità, la terza via di papa Leone XIV

Dietro la celia che circola nei corridoi vaticani e rimbalza sui social - l’America ha finalmente un Papa americano, ma non è Trump, che si era fatto ritrarre vestito da vescovo di Roma - si nasconde una verità più profonda che riguarda l’identità del nuovo pontefice, la sua visione del mondo e il futuro dei rapporti tra Vaticano e Stati Uniti.
Robert Francis Prevost, Leone XIV per la Chiesa cattolica romana, è davvero americano. Ma non solo. Ha anche passaporto peruviano, e soprattutto ha l’anima divisa tra Nord e Sud del mondo. È nato a Chicago, ha vissuto e operato come vescovo a Chiclayo, in Perù. E da lì, dal cuore di un’America diversa, quella andina, quella indigena, quella povera, ha costruito la sua traiettoria ecclesiastica. La sua elezione al soglio di Pietro è un segnale all’Occidente disorientato, alla superpotenza americana che si interroga sul futuro dopo la parabola di Trump.
È infatti all’America di Trump che il nuovo Papa si contrappone. Non nei toni, che sono sobri e meditati, ma nella sostanza. Leone XIV è l’anti-Trump per molti aspetti. Lo è nel pensiero, nella visione sociale, nella spiritualità. Lo è soprattutto nella distanza da quella «religione della prosperità» alimentato da certe chiese evangelicali che negli Stati Uniti ha colonizzato pezzi di cristianesimo: pastori in jet privati, chiese come corporation, teologie che equiparano la grazia divina al conto in banca.
Prevost - o Leone XIV - viene da un’altra storia. Basta leggere il significato simbolico del nome che ha scelto: Leone, come Leone XIII, l’autore della «Rerum Novarum», un’enciclica che nel 1891 scosse le fondamenta dell’Europa industriale, condannando tanto il marxismo quanto il capitalismo predatorio. Una terza via, quella evangelica, che difende la proprietà privata ma rivendica giustizia sociale, dignità per il lavoro, salario equo, diritti per le famiglie operaie. Nel mondo delle multinazionali algoritmiche, dei fondi speculativi che licenziano via email, delle Big Tech che controllano la politica, il nuovo Papa si schiera. E lo fa con un gesto forte: adottando il nome di Leone. Non per rievocare il passato, ma per aggiornare la Dottrina sociale della Chiesa al tempo della disuguaglianza digitale.
Chi lo ha eletto in Conclave non ha guardato il passaporto ma la biografia. Venti anni tra i poveri del Perù. Un lungo lavoro in Vaticano come prefetto del Dicastero per i vescovi, ruolo cruciale nella selezione della nuova gerarchia cattolica globale. E una formazione agostiniana, improntata al discernimento, alla missione, alla misura, alla spiritualità del dubbio come forma di profondità.
A differenza di Francesco, Prevost è meno impulsivo. Ma ne continuerà la linea pastorale. E la parola che ha ripetuto dieci volte affacciandosi dalla loggia di San Pietro non lascia dubbi: pace. In un mondo devastato da guerre e riarmo globale, Leone XIV indica la via del disarmo, del negoziato, della diplomazia.
Il suo pontificato si apre sotto il segno di un’eredità pesante: riforme incomplete di una Curia con angoli velenosi, un Sinodo ancora aperto, il nodo del ruolo delle donne nella Chiesa, la sfida della formazione dei preti in un mondo post-cristiano. Ma anche una forza nuova: il carisma di chi conosce le periferie, parla sette lingue e non ha paura di dire ai potenti che il Vangelo non è un prodotto da mettere nel portafoglio. Lo ha detto chiaramente nella Messa di ringraziamento del 9 maggio: il suo compito sarà «migliorare la vita della gente comune, contro i ricchi e i potenti e di sanare le ferite degli umili».