L'età dell'oro spregiudicata di Trump&Co

L'età dell’oro. Dove tutto luccica, brilla, abbaglia. Tappeti rossi, lampadari di cristallo, grandi plastici per descrivere progetti da favola. Dai campi dai golf agli hotel di lusso, dalle ville ai complessi residenziali, dai porti alle basi militari. A interpretare questa stagione c’è naturalmente Donald Trump, anche se non è certo l’unico. La «febbre» è contagiosa, diffusa, supera confini e quadranti geografici.
Il presidente americano ha collezionato durante il tour nei paesi del Golfo Persico - anzi, arabico - un impressionante elenco di accordi marcati da cifre mai viste. In sintesi 600 miliardi in Arabia Saudita, 200 miliardi in Qatar - più il bonus della reggia volante offerta dall’Emiro a The Donald -, 1400 miliardi negli Emirati Arabi Uniti. Se tutto andrà «a dama» ci saranno guadagni consistenti per tutti i contraenti (e famiglie) ma soprattutto per l’economia statunitense.
Nel giro sono pronti a inserire altri. Gli ex ribelli qaedisti siriani hanno offerto a Washington petrolio e la possibilità di costruire una Trump Tower a Damasco, un’idea per lisciare l’ego del presidente quanto mai sensibile a tutto ciò che onora il suo nome. I turchi sperano a loro volta di rilanciare l’antica ferrovia dell’Hejaz, quella che una volta partiva proprio da Damasco e raggiungeva i luoghi santi dell’Islam a Medina. La linea diventata il bersaglio degli attacchi di Lawrence d’Arabia. Insieme alla rotta ferrata c’è poi l’intenzione di sfruttare quest’area per far passare nuove pipeline e la Via del Cotone in contrapposizione alla Via della Seta cinese. Gli emiratini, invece, dovranno gestire, in virtù di un’intesa, il porto siriano di Tartous, ovvero lo scalo che per anni ha rappresentato l’unica base navale di Mosca in Mediterraneo.
Tutti spingono, sgomitano per ritagliarsi spazi tenendo in poco conto le alleanze. Privilegiano - come insegna Trump - i rapporti bilaterali. Il risultato immediato è la priorità, il resto può aspettare. È più facile mettersi d’accordo se si lasciano fuori posizioni di principio, scelte ideologiche, valori. Sono i numeri dei dollari o degli euro a fare la «cifra», sono i budget che aiutano a dimenticare un passato neppure troppo lontano. È lo stesso presidente americano a spiegare come si può fare, senza troppi patemi. Nel primo mandato aveva preso di petto il Qatar, considerato uno sponsor dell’estremismo islamico. Oggi è felice e onorato di usare un Jumbo offertogli da Doha. E non sarebbe una sorpresa se domani, nel caso di una soluzione positiva del negoziato sul nucleare iraniano, gli Stati Uniti trovassero sbocchi all’ombra dei minareti di Teheran o Qoms. Qualsiasi cosa si può comprare, vendere, scambiare. E in alcuni dei protagonisti c’è la convinzione che creando condizioni economiche favorevoli si possano costruire le fondamenta per risultati politici insperati. Il famoso (famigerato) piano per la Riviera di Gaza, con una Striscia rinata e ricostruita, è il simbolo più clamoroso. La tendenza non è limitata a quel lato ricco e opulento del Medio Oriente, dove pochi hanno tanto. Pensate al balletto sulle terre rare dell’Ucraina diventate l’oggetto del desiderio di Trump, pepite messe nel canestro della trattativa, risorse pretese da The Donald in cambio del supporto a Kiev. E poco importa che esistano dubbi sull’esatta consistenza di questo tesoretto, infatti molti esperti hanno invitato alla cautela. Il quadro delineato sorprende per l’ampiezza, per la rapidità, per la spregiudicatezza mai nascosta. Questo per ricordare che in passato ogni Stato ha badato ai propri interessi: nessuno faceva beneficenza. C’era una buona dose di ipocrisia ma anche tentativi di salvaguardare posizioni di principio. In qualche caso il rispetto dei diritti umani, la tutela di popolazione o di esseri umani in pericolo per le loro posizioni politiche inducevano a frenare. Oggi i premier sono più disinvolti e i loro cittadini si adeguano senza troppa fatica.
I critici mettono in guardia. Bene gli affari, bene i contratti se aiuteranno a dare risposte a crisi annose ma perché ciò avvenga serve alimentare dinamiche politiche parallele. Basta un dettaglio: Israele ha permesso al Qatar di pompare milioni di dollari a Gaza, un modo per abbassare la tensione e «comprare» un periodo di stabilità, con Hamas interessata a governare la Striscia grazie ai fondi generosi. L’alba del 7 ottobre ha dimostrato che il solo «oro» non è stato sufficiente per spegnere il fuoco.