Il reportage

L'insostenibile leggerezza del tifo

Divulgare o tacere la propria fede sportiva? I giornalisti si dichiarano «sotto osservazione»
Marco Ortelli
24.07.2022 10:29

È bene che un cronista sportivo comunichi la propria ‘fede’ o è preferibile che la tenga occultata per non venire impallinato? È possibile raccontare in modo ‘oggettivo’ un evento sportivo se il cuore palpita per una squadra? E il pubblico social, per il quale il termine tifoso calza a pennello, cosa ne pensa?

Cosa accadrebbe ad esempio se Armando Ceroni, in occasione di una partita di calcio Svizzera-Italia urlasse Gol per una rete dell’azzurro Wilfried Gnonto? Che il buon Armando, colpito da «amenissime scalmane» sia andato in confusione? oppure, come reagirebbe il pubblico televisivo della Svizzera italiana se alla fine di un derby tra Lugano e Ambrì vinto dai bianconeri, quasi tutta la redazione sportiva della RSI si mettesse a cantare in diretta TV «La Montanara»? Ma che fanno, hanno voltato marsina o cantano con orgoglio mossi dall’inossidabile spirito della valle?

In pieno clima sportivo (ossia divertito, almeno etimologicamente), abbiamo sondato il parere di tre giornalisti sportivi e di un tifoso professionista cinguettante su Twitter con i cronisti sportivi locali. E voi, in pieno solleone e sotto l’ombrellone, a casa, al bar, cosa ne pensate?

«Imparziale, in modo naturale»

Armando Ceroni la telecronaca ce l'ha nel sangue. Sentitelo: «Già da ragazzo, al bar del paese, in occasione degli arrivi di tappa al Giro proposti in TV, veniva abbassato l’audio originale, per dare voce alla mia telecronaca». Domanda secca. La fede sportiva va dichiarata o tenuta chiusa a chiave nel proprio cuore? «Onestamente, osserva Ceroni, «credo che un giornalista sportivo debba essere imparziale, in modo del tutto naturale. Tutti noi da ragazzi avevamo una squadra del cuore, ma quando diventi giornalista il tuo cuore inizia a battere per altro, senza se e senza ma». Niente conflitto tra anima professionale e anima da tifoso. «In me alberga una sola anima, quella del giornalista che osserva, si informa e poi esprime quello che crede sia corretto esprimere». Poi, «rimane naturale che se gioca la Svizzera tifi Svizzera e gioisci se vince, rimanendo sempre obiettivo nei giudizi. Come nel caso del Lugano in finale di Coppa Svizzera o nel ciclismo ai tempi di Cancellara. Ma se, come in occasione dei mondiali di Mendrisio, il «Cance» non vince, come vorresti, perché corre male, lo dici e in intervista gli chiedi pure perché ha adottato una tattica scellerata».

«Senso di responsabilità»

Luca Sciarini esordisce nel mondo del giornalismo sportivo nel 1991. «Poi un’inserzione su L’Eco dello sport allora diretto da Enrico Lafranchi mi ha cambiato la vita», osserva l’attuale direttore dell’Eco dello sport versione online. Se sul fronte italico dubbi non ce ne sono - la fede per il Milan è dichiarata -, su quello cantonale come la mettiamo? «Sarebbe bello se un giornalista potesse far sapere la propria fede sportiva senza nessun tipo di pregiudizio. Così come sarebbe bello se un arbitro ticinese potesse un giorno arbitrare una partita di una nostra squadra. Purtroppo in questo mondo isterico risulta però difficile». Lo sa bene Sciarini: «Ad Ambrì mi gridavano «bianconero», a Lugano, per il legame Teleticino-Lombardi, ovviamente ero un «piotto». Succede anche nel calcio. Ci rido su e mi dico che va bene così». L’Eco dello sport per definizione è social. Sente la pressione del pubblico-tifoso? «Rispetto a qualche anno fa il nostro lavoro è cambiato, ora chiunque può legittimamente controbattere a ciò che diciamo o scriviamo. Chi segue lo sport è spesso informatissimo e pretende, giustamente, che tu gli possa dare qualcosa in più, quella notizia che arriva «da dentro» a cui lui non ha accesso. Parlare di pressione mi sembra esagerato, io la chiamerei senso di responsabilità».

«Molto attento al mio comportamento»

Patrick Della Valle inizia la sua avventura di giornalista sportivo nel 2011, quando viene assunto dalla redazione sportiva di TeleTicino. In TV, linguaggio logico e analogico… parlano da soli. «Per questo sono molto attento al mio comportamento anche negli stadi e sui social. Ogni mossa potrebbe essere letta in modo sbagliato». Da qui la laconica risposta alla domanda se sia da professare o meno in pubblico la propria fede sportiva. «In un mondo ideale non dovrebbe esserci nulla da nascondere. In quello in cui viviamo è invece meglio che non si sappia. L’appassionato leggerebbe ogni valutazione come frutto del tifo». Anima di tifoso che Della Valle non esibisce ma nemmeno nega. «Chiunque sia cresciuto in Ticino ha una fede, negarlo è stupido. L’anima del tifoso mi ha però abbandonato quando ho iniziato a svolgere questa professione, il cui punto cardine a mio avviso è uno: la correttezza e l’onestà». Dunque lei ha tifato per qualcuno! «Non mi sbottono. Dico solo che dopo 11 anni da giornalista, un mesetto fa una persona mi ha avvicinato per chiedermi per quale squadra hockeistica io facessi il tifo. Una domanda che mi ha reso felice. È la conferma che il trattamento che riservo alle due realtà è il medesimo».

«Guardo la partita anche dove non c’è il pallone»

Fernando Corti è un tifoso che non nasconde le sue fedi: «Lugano», sia nel calcio, sia nell’hockey, ma con aperture anche alle altre ticinesi, «grazie alla cultura sportiva ricevuta da mio padre (già dirigente del FC Rapid Lugano, ndr)». Tifoso attento e informato, Corti cinguetta settimanalmente su Twitter non mandandole a dire ai giornalisti sportivi locali. Perché lo fa? «Mi piace il confronto di opinioni e sono lusingato dell’attenzione che mi viene riservata - cinguetta Corti -. Non si sconfina mai nel personale, quindi argomento e mi diverto. Il dibattito più ricorrente è «professionista» contro «tifoso». A volte il professionista dimentica che siamo tutti e due ticinesi e nel calcio, come nell’hockey, capita di avvertire una sorta di «sudditanza psicologica» da parte degli arbitri nei confronti delle compagini confederate, che il professionista evita accuratamente di riconoscere. Nel limite del possibile cerco di guardare la partita anche dove non c’è il pallone». E sui giornalisti-tifosi cosa pensa? «La professionalità non è intaccata dalla fede sportiva e non per forza deve essere resa pubblica». Poi la cinguettata: «Piuttosto non mi trovo d’accordo con i cronisti che pur conoscendo bene l’ambiente, trasmettono messaggi illusori ai tifosi».