Mondo

L'Università dove si insegna la pace

Studenti palestinesi e israeliani impegnati in un programma sui valori della tolleranza
Viviana Kasam
12.05.2024 15:43

Le proteste pro Palestina e anti Israele, che infiammano i campus universitari in tutto il mondo, Svizzera compresa, pongono una serie di interrogativi. Si tratta davvero di una ondata di antisemitismo, come molti denunciano allarmati, compreso il presidente americano Joe Biden, il cui duro j’accuse ha dominato l’informazione nei giorni scorsi? E si poteva prevenire e contenere prima che l’onda diventasse uno tsunami? La prima domanda richiede un’analisi del contesto in cui le proteste sono esplose, che è quello della cultura woke, con la volontà di denuncia e riscatto delle sofferenze perpetrate dall’uomo bianco sulle popolazioni indigene -colonialismo, sfruttamento, annientamento culturale di popoli ritenuti inferiori perché non bianchi, non cristiani, portatori di codici etici e sociali diversi.

Israele, Paese all’avanguardia tecnologica, con il suo esercito, le sue armi potenti, la cui classe egemone ha occupato e continua a realizzare insediamenti nei territori confiscati ai palestinesi, costituisce, agli occhi di questi giovani, spesso animati da intenzioni astratte di giustizia riparativa, anche se digiuni di analisi critica, l’incarnazione dell’aggressività e la tracotanza dell’uomo bianco. Senza peraltro considerare che proprio quella cultura che intendono riscattare sarà la prima a lapidarli, impedire la loro libertà identitaria e sessuale, se mai riuscirà a guadagnare il potere.

L’impatto della cultura «woke»

Se non si tiene in considerazione l’impatto della cultura woke sui giovani studenti, risulta difficile spiegare perché le proteste siano rivolte contro gli israeliani e non parimenti contro i russi, altrettanto colpevoli nei confronti dell’Ucraina - e lì non c’è stato nemmeno un 7 ottobre. Ma agli occhi della cultura woke gli ucraini non sono una minoranza povera e sfruttata da proteggere e in cui identificarsi. Per tutte queste ragioni può essere riduttivo parlare solo di antisemitismo, senza tenere conto dell’humus culturale giovanile su cui si innesta.

Certo, l’antisionismo del mondo islamico è spesso la maschera superficiale di un profondo antisemitismo - sono noti i rapporti tra il Gran Mufti Amin Al Husseini e i nazisti, che giocarono un importante ruolo nell‘inasprimento dei rapporti tra ebrei e musulmani contrastando di fatto l’iniziale progetto dei due Stati nel territorio dell’ex Palestina britannica. Ma l’antisemitismo da solo non chiarisce quello che sta avvenendo nei campus.

L’atteggiamento ambiguo dei rettori

E forse questo spiega in parte l’atteggiamento ambiguo, incerto, esitante, anche da parte dei rettori delle più prestigiose Università americane, permeate di cultura woke, che non hanno saputo e voluto condannare chi inneggiava nei campus all’attacco di Hamas, giustificandosi con il rispetto del First Amendment, quello del Free speech.

Si poteva fare qualcosa di diverso, e prevenire l’attuale disastro? Una risposta inequivocabile viene da Israele stessa, e in particolare dall’Università Ebraica di Gerusalemme, fondata nel 1918 da Einstein, Buber, Freud e Weizmann con l’idea di creare sul Monte Scopus un faro di cultura e tolleranza.

L’Università, che conta circa 25.000 studenti, di cui circa 3.000 arabi, (sia israeliani che palestinesi di Gerusalemme Est) già il giorno dopo l’attacco del 7 ottobre si è preoccupata di gestire la situazione nel campus per evitare scontri, tensioni e anche di demotivare gli studenti arabi. È stato subito creato il progetto «Living learning together» in cui sono stati coinvolti i professori e lo staff, reclutati volontari per gestire le emergenze e favorire il dialogo nelle classi affrontando apertamente il problema, rispondendo alle domande, rispettando la libertà di opinione ed espressione, ma secondo linee guida precise, indicate in un documento redatto in tre lingue, ebraico, arabo e inglese.

«Per convivere serenamente è indispensabile stabilire regole del gioco condivise», spiega la professoressa Mona Khoury, vicepresidente per le Strategie della Diversità, una giovane e preparatissima arabo-israeliana a capo del progetto.

Regole del gioco ma condivise

Ovvero, che cosa si può e non si può dire, e come è lecito esprimersi, a chi ci si può rivolgere in caso di abusi e a chi spetta il giudizio finale, come si può salvaguardare la libertà di pensiero e opinione ma non per questo tollerare l’insulto, il razzismo, i discorsi di odio. «ll Free Speech, che è per noi fondamentale perché serve a creare autonomia individuale e a mantenere una società democratica, deve essere chiaramente distinto dal Hate Speech, il discorso di odio», precisa Khouri. Per questo, mentre l’espressione delle proprie idee, anche controverse, è sempre incoraggiata, «non consentiamo di esprimere supporto per il massacro del 7 ottobre, perché mina le fondamenta sulle quali è basata la società umana». È invece permesso e appropriato esprimere empatia per le vittime siano esse israeliane o palestinesi. Ogni incitazione alla violenza, al razzismo, all’odio è proibita, come sono proibite le generalizzazioni attribuite in base a caratteristiche di gruppo quali religione, nazionalità, genere.

Le difficoltà degli studenti

Concetti belli e importanti, ma sono applicabili nella realtà, soprattutto oggi? «In tutti questi mesi di guerra (i nostri studenti provengono da entrambi i fronti) abbiamo avuto un solo incidente che è stato tempestivamente affrontato della nostra équipe e si è risolto con scuse reciproche. I ragazzi hanno bisogno di conoscere i limiti tra lecito e non lecito, questo dà loro sicurezza e tranquillità. Il problema oggi è che non ci sono più limiti condivisi».

Parole sulle quali varrebbe la pena di riflettere, perché esiste una terza via praticabile, oltre la tolleranza irresponsabile e la repressione brutale.

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