Testimonianza

Mio marito Peter Jaks

La moglie Francesca ripercorre il lutto, il percorso affrontato con le figlie dopo il suicidio del campione di hockey scomparso 11 anni fa: «I segnali c’erano ma nessuno ha colpe»
Andrea Bertagni
Andrea Bertagni
24.04.2022 07:06

Francesca Jaks parla. Ha voglia e necessità di farlo. Perché «il suicidio è ancora un tabù e invece bisogna affrontarlo». A togliersi la vita, undici anni fa, è stato suo marito Peter Jaks. Una leggenda dello sport. Ma anche «un uomo come tutti gli altri». Con le sue fragilità e debolezze. Che a un certo punto della sua vita, era il 5 ottobre 2011, ha deciso di lanciarsi sotto un treno a Bari. Sconvolgendo tutto il Ticino. Stasera nel programma «Storie», la RSI presenterà un documentario di Patrick Botticchio, La vita oltre. Che ripercorre quei momenti e racconta il percorso affrontato da Francesca e le sue tre figlie. Un cammino in cui il dolore è stato accolto invece di essere rigettato. «Quando vai dentro al dolore - dice Francesca a La Domenica - paghi tutto quello che c’è da pagare, ma poi torni a vivere».

Il ricordo cambia

Il ricordo non scompare. Cambia soltanto. «Oggi le mie figlie hanno un ricordo del loro papà bellissimo. Non sto dicendo che non gli manca. Mancherà sempre. È una ferita che ci sarà sempre. Oggi però è rimarginata», spiega Francesca. Che appare una donna solare. Vivace. Piena di energia. Nonostante tutto quello che ha dovuto affrontare. O anche per quello. «Si impara molto di più dalle difficoltà che dal resto - precisa - oggi le mie figlie sono delle donne forti, anche se per loro, così come per me, affrontare tutto quello che è successo non è stato facile. Anzi». Perché avere tre figlie significa gestire da genitore tre caratteri diversi. «Ognuna di loro aveva età, modi e tempi differenti. Non è stato facile usare le parole giuste al momento giusto con tutte. Ma a loro non ho mai nascosto la verità. Non ho mai mentito». Entrare nel dolore. Per accettarlo. E infine perdonare. Nel documentario Francesca dice che anche nel buio c’è una luce. Bisogna solo trovarla. «Non so se sono stata forte. Di sicuro ho remato. Non avevo alternative. Ho dovuto», precisa, prima aggiungere un dettaglio. Che forse dettaglio non è. «Ho un tatuaggio per ogni fase della mia vita e oggi su un piede ho la scritta «Ogni cosa è illuminata».

«Aveva problemi»

Peter Jaks è stato un campione. Non si contano i successi personali e sportivi. I record. Inanellati in ogni squadra in cui ha giocato. Senza dimenticare la Nazionale. Un vincente. Forse anche per questo la sua scomparsa, undici anni fa, ha sorpreso, scosso, fatto arrabbiare, piangere. «Ma solo adesso, col senno di poi - rivela Francesca - mettendo assieme i tasselli ho capito che c’erano le avvisaglie di quello che sarebbe potuto succedere». Francesca fa una pausa. Poi continua. «Peter non parlava. Non esternava. Ero sempre io a chiedere se c’era qualcosa che non andava. Finito il nostro matrimonio, gli è forse mancata quel tipo di persona». Il ricordo inevitabilmente torna ai giorni immediatamente precedenti al suicidio. «Aveva problemi personali. Ne parlavamo. Gli avevo anche detto «Peter, non stai bene» e gli avevo dato i nominativi di qualcuno che potesse aiutarlo». Invano. «Peter ha nascosto le sue intenzioni. Ma non è stata colpa di nessuno». Perché «se qualcuno tende la mano, ma dall’altra parte non c’è la volontà di essere aiutati o non si è in grado di farlo», si può fare poco. Anzi, pochissimo. «La verità è che non abbiamo alcun potere sulle persone», sottolinea Francesca.

Il suicidio ci appare come un cosa lontana, distante. Non né messo in conto e quando capita siamo tutti impreparati

«C’è speranza»

Peter Jaks è stato un campione. Ma soprattutto un uomo. «Che ha preso una decisione personale, solo sua». E in qualche modo va accettata. «È stata una sua scelta. Può piacerci o no ma ognuno ha la sua libertà personale. E per me la libertà ha un valore enorme. Quando sento che qualcuno vuole togliermela, scappo». Vero è che chi sceglie di togliersi la vita lascia dietro di sè un vuoto enorme. Sconvolgente. Drammatico. Devastante. «Il suicidio ci appare come una cosa lontana, distante - riprende Francesca - . Non è messo in conto e quando capita siamo tutti impreparati. Ecco perché è importante parlarne. Ecco perché bisogna uscire dal quel senso di vergogna che ancora oggi prova chi è confrontato con un suicidio. Risollevarsi è possibile. C’è speranza». Francesca parla della sua esperienza. Che l’ha portata ad elaborare, accettare e perdonare il suicidio dell’uomo che ha amato. Ma anche del papà delle sue figlie, del campione di hockey, dell’idolo per moltissimi tifosi. Un’impresa non facile. Complicata proprio dal non essere una persone uguale alle altre. «Il fatto di essere una famiglia conosciuta ha pesato. Non lo posso negare», afferma.

Il 5 ottobre 2011

Undici anni fa. La vita di Francesca e delle sue figlie è cambiata per sempre in un giorno preciso. Era il 5 ottobre 2011. Quando è stato ritrovato il corpo di suo marito. Peter Jaks era scomparso da alcuni giorni. Doveva andare dalla madre in Repubblica Ceca. Invece era stato visto a Potenza. Dalla polizia. Della sua scomparsa si era occupata anche la trasmissione italiana «Chi l’ha visto?». Qualche giorno dopo era arrivata la notizia. Il campione si era gettato sotto un treno in un passaggio a livello a Santo Spirito, un piccolo paese a Nord di Bari. Nel documentario Francesca torna sul posto. Assieme a due delle sue figlie. Una di loro non ce la fa. Anche se mancano pochi metri. Vuole tornare indietro.

«La famiglia perfetta non esiste»

«Ho voluto raccontare la nostra storia perché il suicidio è un tema ancora poco trattato - spiega Francesca -. Inoltre un anno fa ho avuto una specie di segno. In vacanza ho incontrato una donna ucraina a cui era successa la stessa cosa. Solo che lei per i sensi di colpa non ha raccontato a nessuno, nemmeno ai suoi figli, cosa era successo. Ecco, quell’incontro è stata una molla. Bisogna parlarne. Perché parlandone si possono aiutare le persone». Francesca crede molto in quello che dice. «Parlarne è pagante, davvero». Anche perché «la nostra società fa passare il messaggio che la vita deve essere sempre perfetta. Quando invece la famiglia perfetta non esiste». Non è insomma vero che «tutto va sempre bene», che «addirittura non moriremo mai». La vita «va accettata per tutto quello che è. Bisogna accettare l’invecchiamento, le debolezze, le difficoltà, le mancanze, la morte, il dolore. Bisogna accettare e affrontare tutto. Solo così si può dire di aver vissuto realmente. Non è vero che il tempo guarisce tutto. Se non si affrontano i problemi , tornano regolarmente, si ripresentano e bisogna farci i conti».

Se riesco ad aiutare anche solo una persona ho raggiunto il mio scopo

Non fuggire

Non fuggire. Mai. Soprattutto davanti al dolore. Anche se il confronto è pesante. Anzi, durissimo. «Perché quello che si ottiene dopo è talmente bello che ne vale la pena». Sembra essere questo l’insegnamento di Francesca. Che raccontando la sua storia e quella della sua famiglia vuole aiutare chi crede di non farcela. Chi si trova in difficoltà. E che oggi anche volendo non sa da che parte girarsi. «Qualche tempo fa mi ha contattata un giornalista della RAI, la televisione di Stato italiana. Voleva fare un libro sull’esperienza che aveva vissuto, sulla perdita del suo compagno, che si era tolto la vita. Ma non ha trovato nessuno con cui parlare. Nessun testimone. Nessun ente o organizzazione e alla fine ha rinunciato».

«Voglio aiutare»

Ecco perché Francesca non ha esitato a rendere pubblica la sua storia. Anche se non è comunque stato facile. Anche se il percorso in realtà non finisce mai. Anche se la ferita c’è sempre. «Se riesco ad aiutare anche solo una persona ho raggiunto il mio scopo», chiarisce. Come accaduto un anno fa, quando ha partecipato alla trasmissione Millevoci della RSI. E ha raccontato la sua storia. «Ho ricevuto molti messaggi di persone che mi hanno ringraziato. È stato un segnale importante».