Nei Paesi del subcomandante Marcos

Avete in mente la mela di Adamo ed Eva? La pesca che un’anziana signora mi sta offrendo dal finestrino della corriera diretta a San Cristobal De las Casas, nel cuore del Chiapas, montagnoso Stato messicano popolato dagli Indios, ha la stessa carica tentatrice. Dopo settimane di regime alimentare basato su «caldo de pollo y frijoles» (brodo di pollo e fagioli) mi è impossibile resisterle. Le papille gustative sono in fibrillazione. Affondo i denti nella pelle vellutata del frutto, scordandomi l’abbici del buon viaggiatore: se non si vuole finire in ospedale, ogni pietanza deve essere ben cotta. Nei paesi dove l’acqua non è quasi mai potabile, non bisogna mangiare cibi crudi; men che meno frutta fresca senza togliere la buccia. Così, la mia permanenza a San Cristobal De Las Casas inizia nel peggiore dei modi: a letto. Mi armo di pazienza e cerco di riposare, cosciente che quando si viaggia bisogna mettere in conto anche gli effetti nefasti dei peccati di gola.
«Non si dimentichi le coperte pesanti», mi dicono alla reception dell’albergo. La cittadina si trova a 2.100 metri d’altitudine e la temperatura di notte precipita. Dopo tre giorni di crampi allo stomaco e febbre da cavallo, lascio finalmente la stanza e parto alla scoperta della cittadina di cui ho sentito tanto parlare.
San Cristobal De Las Casas è circondata da montagne e da numerosi villaggi maya in cui si parla ancora il «tzotzil», il dialetto indigeno, e ci si veste con i «huipil», i variopinti vestiti. È facile esplorarla a piedi. Le strade, che salgono e scendono, brulicano di attività. È da qui che è partita la rivoluzione zapatista. So che da qualche parte, nascosto nella foresta, si aggira il subcomandante Marcos, il leggendario leader messicano della rivoluzione più anticonvenzionale e poetica tra tutte quelle scoppiate nell’America Latina.
È l’estate del 1994 e nel giro di sei mesi dall’inizio delle proteste l’immagine del suo volto con il passamontagna nero e la pipa in bocca ha già fatto il giro del mondo. Lui è il nuovo Che Guevara, ma è pacifista. A differenza del leader della rivoluzione cubana, il subcomandante zapatista porta avanti la causa dei locali senza usare armi. La speranza di incrociare lo sguardo del misterioso intellettuale venuto nella capitale del Chiapas per difendere i diritti degli indios è grande. Il subcomandante Marcos non l’incontro, ma gli abitanti di questa regione sfruttata e dimenticata da tutti, sì. Gli indios sono gente povera timida e meravigliosa.
Ogni mattina lasciano i loro villaggi sparsi nella foresta per raggiungere i mercati della città. Si materializzano uno dopo l’altro sul sagrato del Templo di Santo Domingo, uno splendido edificio del Seicento dalla facciata barocca. Alcuni portano nei loro cesti coperte, abiti, amache. Altri splendidi monili in argento e ambre lavorate con grande maestria. Poco più in là incontro il grande mercato alimentare. I profumi di prelibatezze a me sconosciute sono intensi.
Sulle bancarelle scorgo frutti dai colori e dalle forme mai visti. Mi viene offerto un grosso avocado dalla polpa color del sangue. La tentazione è grande ma dico di no: i dolori degli scorsi giorni sono stati troppo forti per ricascarci. Gli indios parlano male lo spagnolo forse perché abituati a usare la lingua più per nascondere che per dichiarare, e comunicano con gli stranieri a gesti. Malgrado secoli di sfruttamento e di dolore, non hanno perso la loro gentilezza. Anzi. Hanno uno sguardo particolarmente dolce. «E il subcomandante Marcos?», chiedo sottovoce ad una ragazza che mi sorride, sperando di realizzare il mio sogno. Lei abbassa lo sguardo e se ne va. Il capo della rivoluzione non lo si tradisce, neppure per solidarietà femminile.