Il commento

No, non guarderò i Mondiali in Qatar

Spegnerò la tv per rispetto dei migranti morti e sfruttati per costruire cattedrali nel nulla
Darwin Pastorin
Darwin Pastorin
20.11.2022 07:00

Non guarderò i mondiali in Qatar: per rispetto dei migranti morti e sfruttati per costruire cattedrali nel nulla (vedi: inchiesta del Guardian e denunce di Amnesty International).

In un paese dove l’omosessualità viene definita «un danno morale» e le donne non sono libere, dove il calcio non è passione, ma affare. In tanti, tifosi ex calciatori (Éric Cantona in testa) intellettuali, hanno deciso di boicottare questa manifestazione per assenza di diritti umani.

Il football, un tempo sartriana «metafora della vita», ballata popolare, rito laico, si è, anno dopo anno, trasformato in un’industria: che mette al primo piano il dio denaro, contando (ma per quanto ancora?) sulla generosità di quei temerari sostenitori che ancora credono nella magia del prato verde, nel recupero, come ci insegnò Javier Marías, settimanale della propria infanzia.

E poco importa, per questi appassionati disposti a qualsiasi sacrificio, soprattutto economico, per la propria squadra, se la poetica fantasia del «dribbling» è stata sostituita dalla prosa fredda del «marketing».

I miei mondiali del sentimento si perdono, ormai, nel mito e nel tempo. Avevo tre anni, vivevo a San Paolo del Brasile, quando la Seleção, nel 1958 in Svezia, conquistò la sua prima Coppa del Mondo, che ancora si chiamava Rimet: era la nazionale di un giovane ex lustrascarpe mineiro, capace di racchiudere nel suo talento ogni meraviglia del possibile e dell’impossibile: Pelé; e di un’ala destra in grado di interpretare il canto dei passerotti, un giocatore onirico soprannominato «allegria della gente», Mané Garrincha, l’eroe tragico adorato da musicisti, poeti e narratori. Scrisse Edilberto Coutinho: «Il calcio, come la letteratura, se ben praticato, è forza di popolo. I dittatori passano. Passeranno sempre. Ma un gol di Garrincha è un momento eterno. Non lo dimentica nessuno».

E quarant’anni fa, al Mundial di Spagna ‘82, giovane inviato di Tuttosport, raccontai la fine del sogno brasiliano di Zico e Leo Júnior, di Falcão e Toninho Cerezo, del gramsciano Dottor Sócrates, e il successo omerico degli azzurri di Enzo Bearzot, il Don Chisciotte della pelota, con in primo piano il sorriso a girasole di Pablito Rossi, il fuoriclasse rinato, passato dal buio al miele.

Il mio calcio era quello delle voci della radio, di assi che correvano e segnavano nella nostra immaginazione salgariana, delle parate di Anzolin e degli imprevedibili funambolismi di Gigi Meroni, la farfalla granata, delle rovesciate proletarie del mio idolo Pietro Anastasi, del sinistro di Gigi Riva breriano «Rombo di Tuono». Per arrivare al Borges del football, al più grande campione, sempre e per sempre, di tutti i tempi: Diego Armando Maradona, ovvero l’immaginazione al potere, l’arte allo stato puro, lo stupore e la bellezza.

E Dieguito, per primo, avrebbe preso le distanze dalla malinconica sceneggiata di Doha.

Invece della Coppa del Mondo, rileggerò i racconti sul pallone di Giovanni Arpino, Eduardo Galeano e Osvaldo Soriano. Mi perderò, felicemente, con nostalgia e rimpianto, tra Arp e Giacinto, Constante Gauna e Peregrino Fernández e «il linguaggio dei dottori del calcio». E saranno giorni di ricordi e serenità.

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